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Alla ricerca della città perduta - Napoli 25-26 Ottobre 2018 Interventi di Sergio Brancato - Francesco Pinto - Gabriele Frasca - Giuseppe Gaeta – Lello Savonardo

 

Venerdì 26 Ottobre 2018

presso la  Sala ACCOGLIENZA –Palazzo Reale-Napoli

si è tenuto un incontro  sul tema della “Produzione e consumo dei linguaggi culturali a Napoli” 

 

Ha introdotto Sergio Brancato  (sociologo)

 

sono intervenuti:

Francesco Pinto   (Direttore CPTV – RAI di Napoli )

Gabriele Frasca     (scrittore)

Giuseppe Gaeta   (Direttore Accademia di Belle Arti di Napoli)

Lello Savonardo   (Docente di Comunicazione e Culture giovanili- Univ. Federico II°)

 

Introduce Sergio Brancato

Mi chiamo Sergio Brancato, sono un docente della Federico II°, mi occupo di media e industria culturale e sono da sempre attento ai temi che riguardano la comunicazione.

Qui con noi abbiamo Gabriele Frasca, che voi conoscete come importante studioso di letteratura di media comparati, nonché poeta ed ex presidente del Premio Napoli, avvenuto in questo palazzo (Palazzo Reale), che lui ha coordinato con eccezionali risultati; accanto ho Francesco Pinto, direttore del centro produzione televisivo della Rai di Napoli, tra le altre cose, per quanto lui tenda a non ammetterlo mai, anzi fugga dalla definizione, è anche un illuminante intellettuale della comunicazione, perché  ha scritto libri importanti, è anche romanziere ed ha pubblicato per Mondadori tre romanzi con un linguaggio inusuale sulla vita  di questo paese; poi abbiamo qui Giuseppe Gaeta, direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, in cui stanno succedendo cose interessanti dal punto di vista della ricerca sui linguaggi, è antropologo; abbiamo poi Lello Savonardo, mio caro amico e collega della Federico II°, anche lui sociologo, che si occupa di comunicazione, media ed immaginario, con una particolare predilezione da parte sua, per le culture giovanili, a partire da quella musicale, responsabile di una quantità esorbitante di centri ed istituzioni, che riguardano questi temi.

 

Siamo qui, perché Mario Mangone  ci ha invitato, chiedendoci di intervenire in questa conferenza, per riflettere su quello che significa oggi parlare di linguaggi e comunicazione, in relazione a questa città.  Ovviamente è una sfida che accettiamo, ma tentiamo di riverberare alcune questioni fondamentali.  Napoli è un luogo genetico della comunicazione, è un luogo in cui la produzione di immaginario ha una sua storia, ma soprattutto ha una sua una serie di pragmatiche che riguardano a cognizione della modernità. Siamo abituati a pensare a Napoli come luogo in cui c’è una sorta di spirito, un “zeit” hegeliano, che consente lo sviluppo di esperienze di eventi, di figure, ma in realtà non è così, sappiamo benissimo che Napoli ha funzionato come uno straordinario dispositivo comunicativo mediale. Sulla base, costituita da una particolare struttura urbanistica, collocata in una particolare parte del mediterraneo e soprattutto che è stata la città in cui in questo paese, nel bene o nel male, con enormi limiti, sono stati avviati alcuni processi di industrializzazione delle forme estetiche.

 

Questo il motivo per cui Napoli continua ad avere un capitale immaginario enorme e per la quale questo, seppur dissipato, continua a essere rinvigorito e si lega a quella che alcuni anni fa Massimo Cacciari, ridefiniva come caratteristica peculiare della città: «l’essere un centro di catastrofe permanente». Come tale, Napoli riverbera energia. Dallo squilibrio, dalla diseguaglianza, ma anche dalle disomogeneità strutturali che riguardano la vita quotidiana, così come le istituzioni. Proprio da questa condizione di costante deragliamento nasce questa idea di creatività così singolare che sembra andare contro tutto e tutti.

Qualche anno fa ero a Barcellona e la trovai tappezzata di manifesti dal titolo “Barcellona tra cento anni”, rimasi trasecolato, basito. In quella città, anche con un certo difetto di supponenza, stavano cercando di immaginarsi tra un secolo, mi sono reso conto che noi non ci immaginiamo neppure quello che potrebbe succedere tra un mese o l’anno prossimo. Nessuno di noi lo sa, nessuno di noi ha una visione di quello che questa città potrebbe essere, dovrebbe divenire. Dovrebbero pensarci gli intellettuali, ma appaiono distratti, spesso si limitano a consuntivi dell’esistente, per esempio: è uscito un libro molto stimolante di Paolo Macry “Napoli-Nostalgia di domani” (Il Mulino Ed.), ma in realtà il futuro in quel libro non c’è. Macry ricostruisce percorsi, ma non riesce a produrre visioni. Il che è anche normale, connaturato alla sua identità di storico.

 

Chi dovrebbe occuparsi di ragionare sulle traiettorie di fuga dell’esistente? Dovrebbero essere i sociologi? Sicuramente, quando si occupano di media soprattutto. Dovrebbero occuparsene le figure preposte alla formazione? Che non dovrebbero occuparsi solo della conservazione, ma persino al rilancio in avanti del gioco della comunicazione e quindi della sperimentazione linguistica. Da questo punto di vista Giuseppe Gaeta rappresenta un’istituzione che sta lanciando segnali fortissimi in questo senso; l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, sta inaugurando una serie di corsi con prospettive di studio legate al digitale. Un caso molto interessante, noi nella Università Federico II, ci abbiamo provato, ma avremmo potuto fare di più.

Anche l’esperienza Rai di Napoli è nevralgica, perché è la più importante industria culturale della città eppure, e qui ce ne parlerà meglio Francesco Pinto, quanto, del futuro mediatico della produzione dei linguaggi e dunque dell’identità di questa città, è possibile parlare?

Ovviamente essendo stato anch’io nella vita un uomo del servizio pubblico, mi augurerei di sì, poiché probabilmente se non lo fa la Rai, non lo fa nessuno.

In chiusura con Gabriele Frasca, sarebbe interessante ragionare su ciò che è possibile fare in merito alla produzione alla sperimentazione dei linguaggi, da quelle zone liminali, le università, le associazioni, le iniziative legate alla volontà di individui e gruppi, che in un modo o nell’altro riescono ad attirarsi a fare macchina e  lanciare segnali di cambiamento.

Questa è la mia breve introduzione, chiedo ai miei amici di intervenire.

 

Francesco Pinto

Vorrei cominciare a mettere qualche punto.

Parto dalla frase di Sergio Brancato, sul cosa succederà tra cent’anni, in realtà non lo sa nessuno, neanche Barcellona. Il futuro è per definizione innovativo, quindi teoricamente inconoscibile.

Qualche tempo fa mi sono dilettato a seguire le strategie che provavano a fare quando nascevano le nuove tecnologie. Vi faccio due esempi storici abbastanza divertenti. Quando nacque il telefono, tutte le ipotesi strategiche furono fatte sul fatto che il telefono sostituisse il campanello di chiamata del maggiordomo. Quando nacque la radio tutti gli studi iniziali, furono fatti sulla faccenda che la radio avrebbe dovuto sostituire il telegrafo. Ci sono pagine e pagine di studiosi che parlano di come la radio fosse perfetta ma che avesse il difetto di essere ascoltata da tutti.

Per questo è da un po’ di anni a questa parte che non credo ai piani strategici, non credo alle razionalità del mondo, non credo molto ai piani quinquennali dell’unione sovietica più o meno travestiti in di studi di fattibilità in slide. Ho chiesto ai miei colleghi durante i corsi di formazione, che se avevano un ragionamento   non fosse circoscritta ad una slide. Li ho così sfidati dicendo buttate la slide e tenetevi  il ragionamento. Questa cosa nel panorama nuovo delle presentazioni della formazione ha scatenato grandissimi brividi di eresia. Non credo alla possibilità di pianificare, non ci credo. Non credo soprattutto nella possibilità di pianificare a Napoli, che rappresenta una “città-mondo”. Il mondo non è pianificabile. Napoli è città-mondo, soprattutto in questi tempi, quelli  della fiction, parola orrenda che usiamo solo noi in Italia;  per una strana forma dell’imbastardimento dell’inglese. Quando sono andato alla BBC, dicendo che lavoravo a Rai Fiction, mi hanno mandato nella struttura che faceva i teletubbies. Perché nel mondo si dice “drama”, no fiction. Vi faccio un esempio molto concreto: provate a mettere in fila i titoli delle cose che ci sono oggi. “Un posto al sole”, “Bastardi”, “Gomorra”, “Amica ritrovata”, sono titoli che rappresentano tutti i range delle narrazioni narrative. Non esiste città al mondo capace di leggere codici così diversi dentro la stessa cornice.

 

Questa è la città che ha l’unico cibo che può essere imbastardito e tenere il suo nome, se fate la matriciana col guanciale, non si chiama più matriciana, se sulla pizza mettete l’ananas si chiama ancora pizza.

La pizza è la metafora della città, è una roba circolare che si taglia a triangoli, che entra in un quadrato e dove dentro ci puoi mettere qualunque cosa. Non è pianificabile esattamente come non lo è il modello culturale.

Per altro stranamente questa città è sullo stesso parallelo di New York. Se mi dovesse venire in mente una definizione omologa infatti sarebbe con New York, piuttosto che con il resto di Europa.

Città-mondo che rifiuta la modernità. Questa città non da oggi ,ma nella sua storia ha rifiutato la modernità, c’è una frase meravigliosa di Paolo Pasolini che vi vorrei leggere, lui udinese, l’ha capita molto meglio di noi “…io penso che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana come i tuareg vive nel ventre di una grande città. Questa tribù ha deciso, in quanto tale,senza rispondere alle proprie possibili mutazioni, di estinguersi rifiutando il nuovo potere ossia quello che chiamano la storia o altrimenti la modernità…”.

 

Non si può conoscere il futuro e non si può avere un’identità moderna. Due valori che rendono Napoli unica. È proprio perché unica,  il suo immaginario collettivo è il più potente d’Italia, sicuramente d’Europa quasi sicuramente e probabilmente nel mondo. Questo immaginario collettivo ha caratteri completamente diversi.

Allora che cosa si fa se non è possibile una pianificazione? Permettetemi di alzare lo sguardo e fare qualche discorso da intellettuale. L’unica strada, a mio avviso, è navigare nella tempesta ogni giorno e sperare che arrivi la bonaccia.

Preferirei una città più anarchica di quella che è, rispetto a quella più pianificata di quella che potrebbe essere. Questa roba qui si chiama “casino”, ma nelle lingue industriali si chiama “flessibilità” ed è il passo principale per cavalcare la tempesta. Se non c’è flessibilità non si cavalca la tempesta. Tutte le città italiane sicuramente, ma anche quelle europee, hanno accettato la modernità e sono morte. Certo sono belle e vivibili. Ma anche nei cimiteri trovate degli straordinari sepolcri, francamente a me i sepolcri, ormai mi interessano poco.

L’unica cosa che possiamo fare, è quella di continuare a lavorare in un’idea liquida, che trasforma la tattica del giorno per giorno e la trasforma in strategia, dobbiamo essere pronti cogliere le occasioni qualunque esse siano. Vi faccio due esempi da commedia. Quando cominciammo con

“Un posto al sole”, ci recammo in Germania, una scena da Totò e Peppino, noi schierati da una parte i tedeschi dall’altra. Ci fecero una serie di  domande e noi da napoletani cominciammo a mentire “avete uno studio di 1000 mq.?”, “eh, certo”,  era la metà; “avete mai lavorato nei processi industriali?”, “eh certamente”,  mai fatto.

A quello studio da 500 mq.  ne aggiungemmo uno, al piano superiore, che era  da 700 mq. e lo ristrutturammo per farne due studi, quindi un totale 1200 m. Dopodiché facemmo quello che era la “Trottola di Minerva”.  Dopo averli fatti decidemmo il perché, li teorizzammo dopo così: i due studi servivano uno per lavorare e uno per fare le scenografie. Magari non ci crederete ma poi questo è stato preso a modello per tutte le situazioni.

Noi siamo i produttori di tutti i programmi di Angela, che sono prodotti in 4k, con il massimo della tecnologia. Per questo sono stato chiamato un venerdì dal mio direttore romano, che mi disse “…te la senti di fare il primo programma in 4k? (una Notte a…)” non sapevo neppure cosa fosse, ovviamente la mia risposta fu: «certamente». E lui: “temevo che avessi detto di si”.

Dobbiamo fare come i mercanti del XXIII secolo, acquistare tutto quello che c’è e rischiare ogni giorno tutto, ma avere anche la consapevolezza che quel tutto, non è base di niente, perché il giorno dopo si parte sulla strada dell’innovazione.

 

Serve quindi un piano?  La mia risposta è No!!!

Serve un atteggiamento culturale proprio di questa città? La mia risposta è Sì!!!

Perché altrimenti non se ne esce.

Se guardassimo i dati delle strutture, la città dovrebbe essere culturalmente morta. Non ci sono investimenti pubblici, strutture pubbliche, i poveri universitari lavorano in strutture fatiscenti e imbarazzanti. Però se guardassimo il dato materiale, la città è più che viva; credo che negli ultimi anni si siano fatti almeno 80 dei film più belli, gli scrittori che vendono di più in Italia sono napoletani, il corpo di attori è uno dei migliori d’Italia. Non funzioniamo se ragioniamo all’interno dei piani, e per questo vi invito ad essere molto più irrazionali e molto meno razionali.

 

Sergio Brancato

Francesco Pinto mente quando dice di non essere un brillante intellettuale.

La sua idea della modernità matura qui a Napoli, nell’università degli anni 70, gli anni in cui nella facoltà di sociologia c’era Alberto Abruzzese, che venendo da Roma, come capita spesso, ha reso tutto interessante perché veniva da fuori, ci ha spinti a ragionare sulla città in termini come questi. Per esempio, sulla Napoli che si arresta sulla soglia della modernità, ma che in qualche modo la supera, altrimenti non si coglie il vitalismo della città. Ho detto Francesco la parola pianificare, mi è scappato, a volte dico stupidaggini, me ne scuso perché non era mia intenzione.  L’intenzione non era pianificare, perché altrimenti saremmo portati al progetto, definizione moderna, però insomma, produciamo delle visioni, altrimenti, entro quali margini possiamo accendere le differenze, i conflitti che poi producono la possibilità di restituire la città? È questa la cosa che interessa a Mario.»

 

Francesco Pinto

Lo dico in maniera più semplice, il tema è se stiamo per mari della modernità, dobbiamo guardare le previsioni del tempo o avere una nave attrezzata per ogni tempo? È questo il punto. Non ci sono altre differenze. Personalmente preferisco la seconda.

Avevamo un capo in Rai che si chiamava Massimo Fichera, che voleva scrivere un libro, che purtroppo non è uscito, il titolo diceva “ho fatto dieci battaglie nella vita e le ho perse tutte”. Può anche darsi anche che dobbiamo dare spazio alle strategie, ma questo è quel che penso, «il vero titolo di quel libro però te lo ricordi male era “Come essere sconfitti ed essere felici”», «è vero»

 

Sergio Brancato

Beh!!! Come capita anche ai grandi utopisti, lui per molti versi si rendeva conto di essere fuori contesto in quella situazione. Ora se siete d’accordo darei la parola a Lello Savonardo.

 

Lello Savonardo

«Grazie per l’invito, le sollecitazioni sono tantissime e gli spunti di discussione potrebbero permetterci di parlare per ore ma credo di dover entrare nei cinque minuti.

Parto con delle considerazioni su Napoli, la città non è in crisi, come direbbe Chambers è una città che va considerata come crisi. La parola «crisi», che in alcune lingue significa opportunità, in questo caso significa sostanzialmente mutamento, trasformazione mutamento. Napoli è una città che è nel fluire incessante della vita in constante mutamento; si fissano delle forme nella città ma è prevalentemente questa continua trasformazione che caratterizza la città. Non solo perché è città porosa bagnata dal mare, crocevia di culture che arrivano da altrove e si collocano qui dialogando con la cultura di appartenenza; quella pretesa di unicità che esprime Napoli non è nel suo forte localismo; neppure nella sua capacità di essere tradizionalmente molto consapevole di sé perché sa veicolare le proprie tradizioni, i propri valori culturali, da sempre nel mondo; piuttosto la sua unicità sta proprio nella capacità di assorbire trasformare, ridefinire, concepire, ciò che arriva e riversarlo nel mondo in un’ottica trasformativa di contaminazione, di ibridazione, in un modo assolutamente inedito rispetto ad altre città e lontana per natura dalla modernità. Napoli è forse da sempre lontana dalla modernità. Le categorie concettuali della modernità non si sposano con il luogo, ma si sposerebbero forse quelle della post-modernità e l’idea di una città in trasformazione liquida che in qualche modo mette in discussione le sue stesse categorie tradizionali interpretative.

Questo bagnarsi della città con il Mediterraneo, che sostanzialmente è la rete internet ante-litteram. Luogo di cambiamento e trasformazione che grazie al viaggio permette di raggiungere mete ed essere raggiunta (in quanto meta).

Ritornerei sui linguaggi, e anche a quello che Francesco ci ha fatto notare, giustamente, da buon direttore del centro rai di Napoli, cioè l’unico strumento vero de l’industria culturale in Campania perché dobbiamo dirlo, anche grazie a Francesco questa industria culturale si è consolidata.

Proprio quando, con Francesco, qualche anno fa, abbiamo presentato il mio libro, “Culture senza elite”, si parlava di questa elite culturale frammentata, discontinua incapace di portare avanti un progetto unico. Un progetto unico, non lo nego, potrebbe anche essere un limite, perché Napoli è così ricca di fermenti, movimenti, artisti, sollecitazioni che probabilmente incanalarli in una pianificazione sarebbe impossibile da un lato e da un altro sarebbe un torto alla città. Pianificare è un errore. Napoli è una città che esprime anarchia in quella incapacità di fare rete ma una straordinaria capacità di veicolare tante personalità delle arti.

Ma poiché produciamo linguaggi, poiché l’industria culturale in Campania potrebbe essere sistematizzata più di quanto lo sia stata fino a oggi, poiché la cultura e l’arte fanno economia (nel senso che si mangia con la cultura da sempre), probabilmente non riuscire a pianificare ma a fare rete, anche dal basso potrebbe essere uno spunto. Pensate solo al web, l’esempio di Liberato, un caso clamoroso, un esempio di nuovo marketing (non un caso che parte dal basso perché sponsorizzato dalla Nike e prodotto da Francesco Lettieri, quindi un videoclip finanziato con veri fondi) ma un esempio su come ci si confronta con un pubblico che non guarda più la pubblicità, non guarda più la televisione, non guarda più le promozioni tradizionali. Liberato con utenti dei vicoli di Napoli e  di tutto il sud ha un pubblico di giovani attenti alle emozioni, ma non più ai messaggi promozionali tradizionali; per cui anche quello è un sistema che dal web, cioè da un nuovo modo di veicolare la cultura mutando completamente la faccia dell’industria culturale. Questo è il tema, non quello di fare rete e creare un sistema per pianificare ma valorizzare le industrie culturali in Campania.

Ormai l’industria culturale non è più geolocalizzabile, non ha più confini tradizionali, non ha più vincoli come in passato, ma è fluttuante come Napoli, come il web, come la rete, e Napoli prima di tutte le realtà è stata postmoderna: liquida, fluttuante, anche difficilmente ingabbiabile. Capace di veicolare qualcosa di diverso, dei cortocircuiti tra tradizione e innovazione, c’è la novità c’è il nuovo linguaggio che prende piede. Anche la canzone napoletana tradizionale, è un torto definirla così perché è il frutto di processi di contaminazione ibridazione che provengono dal mondo arabo che si sposa con i suoni locali del popolo, ma che è in continua evoluzione.”Nun t’e scurda” è tanto classica quanto “Malafemmena”, e nello stesso tempo entrambe non lo sono affatto; sono entrambe l’esempio lampante di come i linguaggi a Napoli siano la combinazione tra diverse forme espressive creative, che si fondono in un discorso che va nel divenire, nel terzo spazio. Cito di nuovo Chambers «Dove nulla è ciò che era e nulla è ciò che sarà», è lì il divenire è in trasformazione ma non è ancora concetto che esprime la città nella sua essenza.»

 

Sergio Brancato

Entrano in gioco anche altre questioni interessanti che riguardano l’attualità di un altro concetto moderno che è quello dell’industria culturale.

Senza i media la società moderna non esiste. Il punto è che l’industria culturale diventa inevitabilmente, nei nostri anni, concetto obsoleto. Noi l’abbiamo usato spesso cercando di afferrarlo in maniera flessibile e probabilmente oggi col passaggio dalle comunicazioni di massa a quelle della rete ci si pone in condizione di ragionare e di porre una visione sul nostro discorso che sia appunto più (odio il termine liquido fa tanto trendy) fluido. Bisognerebbe cominciare a ragionare dentro una prospettiva nuova e l’idea che laddove  fin ora abbiamo ragionato entro nei termini della pesantezza della fabbrica, oggi dobbiamo cominciare a ragionare proprio nella smarginatezza: nella assenza di margine, nella riformulazione di confine che ci da appunto il web, il paradigma della rete. Concetto sul quale lavorano Gabriele Frasca e Giuseppe Gaeta.

 

Giuseppe Gaeta

Ritrovarsi nella maggior parte delle affermazioni che sono state fatte è facile, o quantomeno nei pensieri critici; io condivido, profondamente, quello che ha detto Francesco Pinto, ossia quello che il tema non è la «pianificazione» parola che a me spaventa solo nel pronunciarla, ma il tema è nell’idea del «progetto» cosa diversa dalla pianificazione. Io nasco come antropologo urbano, la differenza tra cultura del progetto e tra cultura della pianificazione è l’idea che il progetto non deve ingabbiare i processi, ma li deve accompagnare, questo è un problema importante, cambia completamente la prospettiva, governare quello che è un processo fluido, che per molti di noi ha significato confrontarsi, noi abbiamo una matrice formativa molto simile, quindi ci riconosciamo anche in medesime categorie e forme linguistiche, per noi questo è il tema della complessità. Una complessità che per chi come me proviene dalle scienze sociali, dall’antropologia culturale, e si trova immerso nel contesto de “l’Accademia delle Belle Arti”, all’interno della hanno governato dei modelli dialitici che sono stati la vera gabbia dell’evoluzione di questa struttura, deve affrontare. Non esiste niente di più dialitico e ricco di pregiudizi del concetto dell’arte e della creatività, allora sdoganare alcuni pregiudizi significa liberare delle energie. Sono d’accordo col concetto di liberare le energie.

Sono stato in giro e sono tornato a Napoli, ho trovato una città dove per una congiuntura storica generazionale, si stavano che creando delle condizioni per poter interagire, con cui oggi lavoriamo, facciamo progetti, c’è un percorso, una conoscenza, una sensibilità. Questa città esprime ora secondo me una congiuntura storica fatta della destrutturazione dei modelli pregiudiziali, che hanno ingabbiato e distrutto l’arte: dichiarare cosa è l’arte, un concetto di Gillo Dorfless dove afferma ne “L’Oscillazione del Gusto” dichiarare che fa un pessimo servizio all’arte chi la definisce, perché definisce dove comincia, mette uno steccato, quali sono gli orizzonti. Se c’è qualcosa che proprio come Napoli è sempre stata permeabile alla trasformazione, alla sollecitazione, questa è proprio l’arte, o perlomeno un certo modo di pensare l’arte nei termini della creatività e non certo figlia della logica e della pianificazione, seppur nel fare artistico ci vuole un rigore analogo a quello dello scienziato. Un rigore che non significa anticipare ma lavorare con sinergia costante con la materia dalla quale si trae un insegnamento bidimensionale. Per far intendere parlo sempre dello scultore. Lo scultore si deve confrontare con una materia esistente, deve immaginare o anticipare una soluzione, ma nel momento in cui decide di intervenire sulla materia non può prescindere dal considerare quella materia resistente, non può pensare di governare quella materia senza incontrare la venatura del marmo ed esserne condizionato. Deve accettare la sfida della complessità.

Perciò abbiamo sdoganato nell’accademia l’idea che questa non formava artisti ma competenze estetiche, cose molto diverse, che di volta in volta si confrontavano con situazioni nuove; e come dicevo qualche giorno fa in una conferenza stampa del nuovo programma del Madre, c’è molto bisogno di competenza estetica in questo mondo e con estetica intendo il rapporto etimologico, ma anche critico.

Abbiamo sentito anche la parola “crisi” che significa selezionare distinguere, ha una serie di significati importanti questa parola. La nostra è una città critica da tutti i punti di vista, nel senso che è sempre stata capace di inglobare e di cernere; unire e separare; l’arte fa lo stesso rielabora secondo delle prospettive inattese molto spesso quello che sembrerebbe destinato a un percorso unidirezionale.

Questa la nostra scelta, quella di uscire da una sorta di autoreferenzialità, quella che appunto non formiamo più gli artisti ma le competenze estetiche che sono messe a disposizione del territorio. Non ci raccontiamo più che siamo bravi o che siamo capaci di produrre un ottimo risultato ma cerchiamo di andarci a confrontare col mondo che ci circonda, con la città e la ragione Campania (tante identità culturali differenti).

Noi parliamo di Napoli, ma io penso che dobbiamo avere uno sguardo un po’ più ampio: la Campania è in questo momento una regione che ha una ricchezza straordinaria di proposte culturali che stanno nascendo in forma di autorganizzazione tantissime esperienze.

Mario mi raccontava prima, che i milanesi hanno fatto una bellissima esposizione del loro progetto stamattina. Io dal mio piccolo osservatorio, che è fatto di progetti che stanno nascendo crescendo con istituzioni diverse, dico che questa regione non ha nulla da invidiare a queste grandi realtà raccontate, quello che abbiamo però ha molto da fare, bisogna trasformare questa proposta culturale, da solo organizzata a visibile, quello che temo è che sia tutto carsico e che non riesca a emergere. È un rischio, noi con Lello sappiamo quanta energia c’è qui, quanta non se ne vede, quanto reciprocamente i soggetti non si conoscano. Il nostro piccolo sforzo è stato quello di entrare in relazione, offrire delle sponde, lavorare insieme investendo risorse.

Un’istituzione culturale che riesce a investire risorse nella produzione della stessa, una delle caratteristiche dell’accademia è che si fa ricerca ma si produce. I progetti che noi facciamo ormai li finanziamo li cofinanziamo. Non andiamo da nessuna parte a chiedere i fondi, siamo sempre lì a immaginare di poter utilizzare quello che abbiamo per poter realizzare.

Si parla tanto del progetto "Cuore di Napoli” che ormai è una realtà. Ci chiamano ormai da tutta Europa perché esiste un progetto rilevante intorno ad un segno. È un progetto dove l’istituzione ha investito decine di migliaia di euro non per sé ma per la città, per i territori in cui ha operato. Chi conosce il progetto sa cosa vuol dire, oggi questo è riconosciuto anche dal “Ministero dei Beni culturali” grazie alla nostra continuità, per averlo collocato in un quartiere particolare, quello dei Quartieri Spagnoli,  per cui abbiamo fatto una riflessione critica sull’idea di periferia. Napoli è una città atipica, dove il centro antico storico è ancora abitato dal popolo, non è così ovunque, ed è tema sulla quale dobbiamo riflettere. Perché è una forza pulsante che se abbandonata a sé, diventa forza regressiva, se coinvolta nei processi, come abbiamo fatto noi con l’ultimo progetto, diventa una straordinaria energia attiva. Tant’è che abbiamo deciso di dare continuità al progetto costruendo un laboratorio permanente.

L’idea è la partecipazione; l’idea è l’occasione del confronto; l’idea è fare rete mettendo insieme le persone; una piccola sfida che in questo momento è partita, realizza degli obiettivi, non solo nella città ma anche in luoghi lontani (come quello a S. Potito Sannitico, dove si è innestata un’officina per fare torchi calcografici; o a s. Leucio un progetto sull’antica capacità dei filatoi della seta, perché oggi riscoperti nell’industria del design). Quindi lavorare negli interstizi della regione e recuperare il patrimonio mettendolo nella dimensione dell’innovazione.

È vero Napoli ha scavalcato la modernità. La definizione di Lello, post-moderna, è giusta ma per me è insufficiente, per me va anche oltre il post-moderno probabilmente. Definirla postmoderna è già inserirla in una categoria, la stiamo inglobando.

È dentro quella complessità che non è solo casino, è forte energia e produce oggi nell’ambito dei processi artistici tutta quell’innovazione che Francesco Pinto  ci ha descritto, che si estende anche nei campi dell’arte contemporanea. Abbiamo fotografi che

lavorano con noi in accademia come Antonio Biasucci  o il gruppo della “Gatta Cenerentola” che stanno cercando di mettere in relazione la formazione con la produzione. Lavorare sui progetti e non solo sulle teorie. È un piccolo sforzo ma penso che se come emerge questo ci sono le volontà, si può anche produrre qualcosa nel tempo»

 

Sergio Brancato

«Ringraziamo Giuseppe perché ha in qualche modo ampliato gli argomenti che costituiscono l’incontro di oggi.

Mi viene da pensare a quando Gombrich sostenne che non esiste l’arte ma esistono gli artisti, si muoveva ancora dentro una tradizione e una strategia propria della cultura dell’umanesimo.La cosa che noi stiamo affrontando adesso, si hai ragione, va anche oltre la post-modernità, ma solo nella visione in cui la definizione diventa inappagante perché abusato, inglobato. Forse dobbiamo avere il coraggio di adottare prospettive più radicali come quella del post-umano che sicuramente è una di quelle definizioni che diventano lampanti quando osservi le produzioni più interessanti dell’immaginario contemporaneo, sia dal punto di vista della forma che in quella dei contenuti.

 

Gabriele Frasca

Parliamo degli che ci ha presentato Mario, capire un po’ il progetto da contendere. Qui c’è la prospettiva di realizzare qualcosa in un’area della città che va da Piazza Bovio, prende Piazza Matteotti e arriva a Piazza Municipio, compresa l’area portuale.

Per fare di quest’area, un luogo dove la città si rappresenta. Ha detto Giuseppe Gaeta che Napoli è una città senza centro, cioè questo esiste. Napoli ha un grande centro storico, anche molto sviluppato, ma costantemente mobile. Avete notato quante volte, anche solo nel caso della «movida» il centro cambia.

La città non ha avuto  nel XIX sec, quell’allontanamento del proletariato alle periferie, «quel metodo francese diciamo», che ha trasformato tutte  le città europee. Napoli rappresenta uno dei pochi casi, dove questo non è avvenuto, al punto tale che qui la stratificazione sociale è sempre sotto gli occhi di tutti. Quindi questa idea di perimetrale di un’area che potesse rappresentare la città mi ha fatto venire in mente da dove nascono certe idee, Sono aree che vengono da alcune pianificazioni (usiamolo questo termine, non esiste solo il termine usato nel senso sovietico). La prima pianificazione è di Don Pedro da Toledo che decide che la città non può andare oltre le sue mura, quindi si espande dalle parti di piazza municipio, fa sfogo dell’arteria via Toledo e si crea questo fenomeno anomalo, per qualsiasi altra città europea dell’epoca: non si sviluppa all’esterno delle mura ma si sviluppa in verticale. Una New York del XVII secolo.

Basta andare nei quartieri spagnoli, per rendersi conto che Napoli possedeva i palazzi più alti di tutta Europa, perché appunto bisognava stare tutti addosso agli altri; Don Pedro dia Toledo aveva deciso che non si poteva andare al di là delle mura; il che non solo ha favorito le grandi epidemie, insieme a quelle dell’immaginario, ma anche reso la città, in un epoca fondamentale e fondante come quella del 600 una «città-teatro». Perché quella di inserire i suoi abitanti all’interno di quattro mura determinava che tutto capitasse sotto gli occhi di tutti. Non è che i napoletani nascano teatranti o abbiano questa grande capacità di divenire attori, è piuttosto il fatto che il vivere in estrema contiguità rispetto all’altro determina o una struttura difensiva, e quindi sostanzialmente un rifiuto dell’altro (via psicotica) o altrimenti l’entrare in un rapporto immediato gestuale, che ti dà l possibilità di vederti nel momento in cui agisci. Sono convinto che non esista napoletano che non è convinto di osservarsi mentre si muove, proprio perché le quinte sono ridotte.

Altre aree prese a modello per la riflessione, sono quelle che sono state pianificate con l’obiettivo di divenire slarghi: abbiamo il caso sabaudo del Risamento che dà vita a Corso Umberto che slarga e allarga, abbiamo il caso dell’intervento fascista di Piazza Matteotti… Vari interventi che capitano all’improvviso. Tanta è l’estrema contiguità dei napoletani, si è talmente tanto uno addosso all’altro, che spesso si sussulta perché si sente la presenza dell’altro.

L’avere la straordinaria sensibilità di sentire il proprio immaginario. Napoli è una città che vive l’immaginario e vive d’immaginario, che forse è la sua salvezza, e forse questo si vede proprio dal fatto che non ha un centro borghese e una periferia proletaria. L’immaginario a Napoli non si è solidificato, sebbene ci siano molti stereotipi (pizza e mandolino) l’immaginario è costantemente modificato, costantemente rimodellato, direi anzi che la città soffre di troppa stratificazione immaginaria. Anche perché cerchiamo di dipingere l’immagine di una sfera di significati, che è sicuramente la città, che si è venuta a formare con le stratificazioni successive. Io non so e nessuno riesce a capire se i modelli che possiamo offrire per questa stratificazione immaginaria sono quelli della cipolla o quelli della perla vale a dire se sotto questi strati non c’è nulla, o c’è un chicco, un granello, la malattia del mollusco.

C’è il male come base del nostro immaginario? Io dico di sì, diciamo che il male è base. Il fatto che la città non ha diversificato le sue classi sociali in maniera topologica e che si è chiusa nella sua teatralità proprio nel secolo in cui la teatralità era sostanzialmente tutto (l’epoca barocca), perché attraverso il teatro passava la comunicazione verticistica e diretta dall’alto, anche se vivacissima.

Immaginate quello che era l’immaginario di Napoli prima del terremoto, e quello che è stato dopo. Cosa è stato l’immaginario, successivo all’esplosione della malavita dovuta ai soldi della ricostruzione che hanno determinato un modo diverso di relazionarsi.

Si sa, ora che nelle nostre fiction,quelle che vanno maggiormente e quelle che esportiamo all’estero, sono proprio quelle che tematizzano questo strato malavitoso. Una vittoria dell’immaginario. Una cosa che in America è stato consumato per tempo. Gli americani hanno tematizzato questo, sino a farne mito fondativo sostanzialmente. Forse perché gli americani, in quanto nazione giovane, hanno compreso che i miti fondativi si basano sul male. Forse l’abbiamo compreso anche noi,tardi, che abbiamo questo rapporto con il male ed è un rapporto alla quale non possiamo sfuggire.

Noi sappiamo che Napoli è tante classi sociali, generalmente antagoniste non si sa contro che, ma che hanno creato strati e strati di cultura. Se ci fate caso quando vi parlo del ‘600 vi parlo dell’unica epoca che noi ricordiamo in cui c’è stata una cultura generalizzata, rivolta a tutte le classi. Un controllo così attento e perspicace che deve colpire tutte le classi sociali, è il trionfo del teatro. Nel caso dell’Italia, che aveva un problema linguistico,trionfa più del teatro, il teatro cantato, è la musica che fa il lavoro di legante sociale.

Quando dal ‘700 in poi la borghesia assume il potere, sappiamo che questa fa un discorso di selezione culturale artistica, crea una cultura solo borghese, un esempio: il romanzo. È lì che la classe sociale si rispecchia. Si crea una diversificazione, chiunque non arriva al romanzo, al melodramma, non partecipa alla cultura. Tant’è che delle classi popolari non si sa è più nulla, si recupera qualcosa solo sottoforma di folklore.

Napoli, in quel periodo continua a produrre cultura popolare; mentre nelle altre città d’Europa progressivamente scompare; Napoli resiste clamorosamente con una sua forma popolare, di ogni tipo: non soltanto le canzoni o la sceneggiata. La produzione popolare, che ci piacciano o meno (a me personalmente no), sono elemento culturale significativo di questa città, vive di quello, prodotti che vengono consumati a beneficio dei fruitori e degli artisti.

Quello che io mi chiedevo, allora, in questa ipotesi di riflessione, è quando vogliamo iniziare a cominciare a sporcarci le mani con quest’altro aspetto della città?

Io ho l’impressione che tra la borghesia colta napoletana, di altissimi ideali (pezzente rispetto alle altre realtà borghesi europee) e il proletariato napoletano non ci siano mai stati rapporti se non quando ci sono stati i rapporti malavitosi. Solo dal momento in cui c’è qualcuno che delinque, che finalmente si incontra quell’altra parte.

Ho chiuso la mia esperienza sul “premio Napoli”, stimolando disperatamente le istituzioni, a stabilire un rapporto più intenso con le carceri della città perché è lì dove si incontrano le classi, e soprattutto a Secondigliano, si ha la possibilità di agire su persone che sembrano essere fuori squadra, ma che non lo sono e si potrebbe lavorare sulle loro famiglie.

Abbiamo creato lavorando nelle carceri un’attesa che è stata disattesa; vi dico la Lombardia ha una legge regionale sull’attività culturale delle carceri! Non vi dico l’Emilia perché magari ve lo aspettate. La Campania che produce tanta criminalità non ha una legge regionale, questa era stata presentata all’epoca di Caldoro, non ha mai avuto la possibilità di decollare, non si sa perché ora non decolla. Io penso che un modo per riflettere molto sulla città e riflettere sulla città è pensare che non si tratta di persone da buttare via , ma persone con la quale confrontarsi, perché forse magari in quel modo le due anime staccatissime della città cominceranno a dialogare»

 

Sergio Brancato

Ovviamente è nella natura di un incontro del genere non avere una trama che poi conduca ad uno scioglimento. Io credo che d’altra parte nelle intenzioni di Mario ci fosse  poi quello di aprire o di annodare dei fili dispersi perché non siamo mica gli unici a parlare di queste cose. È anche vero però che il dato inquietante, il dato pubblico in cui si cerca di spingere in avanti i dibattiti su questi argomenti, non sono tantissimi, e in una metropoli è preoccupante.

Personalmente mi preoccupo quando anche nei casi dove si discute, dove si riesce a pensare ad un modello di relazione socio-culturale. Quando quelle cose,in qualche misura, vengono accantonate.

Non so cosa aspettarmi dopo questa sera, ho un obiettivo molto piccolo, cioè quello che le persone che hanno partecipato a questo incontro, non sto parlando solo dei relatori, abbiano poi la voglia di incontrarsi di rivedersi e ragionare in questa direzione. Sperando che queste riflessioni non siano pura riflessione estetica, coreografia dell’intelligenza,  ma possibilità di ancorare piccoli spunti in direzione di ripensamento di noi stessi. Che poi è ciò che dovrebbe attenerci. Quello di ripensare la città a partire dalle sue componenti.

Direi ringraziamo Mario per averci ospitato. Ringraziamo Voi per averci ascoltato. Arrivederci.