Interventi di M.Lo Cicero/I.Ferraro/N.Ktenàs/C.Confalonieri
Venerdì 26 Ottobre 2018
presso la Sala ACCOGLIENZA –Palazzo Reale-Napoli
si è tenuto un incontro sul tema: Quali trasformazioni per le realtà urbane italiane. Il caso Napoli, Milano ed Atene, verso nuove forme di collaborazione. Verso la costruzione di vetrine urbane a scala internazionale tra Salone del Mobile - Milano 2019 e “TIME EXPERIENCE BOVIO 2019” in parallelo con Universiadi 2019 –Napoli
Introduce Massimo Lo Cicero (economista)
sono intervenuti:
Italo Ferraro (curatore di Napoli-Atlante della città storica)
Nikos Ktenàs ( Atene-architetto docente al Politecnico di Milano)
Cristian Confalonieri (Fondatore StudioLabo e Creativ Director) su Brera Design District - Milano
Introduce Massimo Lo Cicero
Sono un economista, mi occupo di qualcosa che ha sempre a che fare, anche se lontanamente, con l’urbanistica. Quando Mario Mangone mi ha proposto il tema “Alla ricerca della città perduta”, sono rimasto un po’ sbigottito, le città perdute sono quelle che si cercano dopo 8000 anni: gli Assiri, i Babilonesi. Loro sì, che hanno perso un sacco di città ed invece questo tema, in una città come Napoli, diventa problematico, perché appunto la città non vive, ma le persone sì. Una questione secondo me un po’ stravagante. Guardiamo per un momento le altre grandi città d’Italia, hanno suppergiù tutte circa tre milioni di abitanti: come Roma, Milano, Torino, Napoli. La somma di tutti gli abitanti di queste quattro città, è di circa undici milioni di persone. Un bel gruppo, diciamo. Un gruppo che fa aumentare il numero di abitanti d’Italia, poichè le altre città sono piccole. Napoli così si imposta così tra una delle città più importanti e dovrebbe essere punto di riferimento per tutta l’Italia meridionale. Ma appunto dovrebbe, non ne è capace, tutte le volte che parlo di queste cose con amici milanesi, mi dicono che Milano è l’ultima città che può conseguire relazioni con il meridione. Paradossalmente, Milano diventa il centro più a sud di Napoli.
Una città metropolitana, come dall’ex Ministro Del Rio, così trasformata. Non più un milione di abitanti, ma tre. Ma questi tre milioni di abitanti napoletani sono divisi tra 70-75 comuni e la maggior parte si gestiscono da soli. La città resta «asciugata», anche dal fatto che quel un milione di persone, che resta nel cuore della città, è un gruppo dove ci sono ormai dei livelli molto bassi rispetto ai livelli innalzati.
Ora non è che tutta Napoli non funziona, ma funziona in maniera molecolare, non ci sono centri che danno iniziativa. L’ultimo momento epocale d’iniziativa è stato durante la Belle Epoque. Cavour appena dopo l’unione ci dice, venendo qui, di cercare un modo affinchè Napoli, che non è più capitale, possa diventare una città organizzata e potente; ed in questo periodo la città si muove. A Milano c’erano infatti meno operai che a Napoli, perché la città, dal punto di vista della capacità industriale, aveva fatto un enorme processo d’ingresso. Nel senso che dal 1870 al 1910, sono arrivati a Napoli: belgi, inglesi, francesi. Venivano tutti qui, perché era la più grande città con la presenza di navi. Dopo aver fatto i tram, le illuminazioni pubbliche, poi con Nitti, che è venuto a Napoli nel 1904, dice di mettere a posto questa struttura urbana napoletana, poiché questa «non può camminare nel vostro modo di essere».
La grande struttura che avrebbe dovuto essere Corso Umberto I°, era stata costituta da una società nel 1705. Tuttavia nel 1904, Nitti, non era ancora riuscito a mettere qui un “pizzo”, e quindi “…rifate il Corso Umberto, fate il Corso Garibaldi, fate una grande industria a Bagnoli, e poi fate pure un grande porto. Una volta fatto questo, io sono convinto che Napoli potrà diventare, quella che immaginava Cavour…” perché questa città aveva tutta la capacità di fare. Napoli non era capitale in senso politico, ma in senso sociale.
Chi e che cosa, ci hanno fatto uscire da questo andamento? Un po’ l’epoca fascista, un po’ la ricostruzione degli anni ‘50, con l’idea che Napoli si dovesse allargare per forza e non in maniera conservativa. Con il venire degli altri decenni, questo concetto si allarga ancora di più. La debolezza si sente agli inizi degli anni 80’, quando avviene il terremoto, ci sono pochi soldi. Il ventennio ‘80-‘90, una grande decadenza, nel 94’ subentra “mani pulite”, sino a giungere all’euro, “la fine del ‘900”, l’inizio di una cosa diversa. Carlo A. Ciampi riesce ad inserire l’Italia in un posto dove in realtà non poteva stare, tant’è che la Grecia, la Spagna e il Portogallo si inserirono molto dopo nell’Europa.
Napoli però nel frattempo resta smarrita, nel senso che non c’è una capacità di mettere le persone insieme, non più una Belle Epoque, ma una città che decade ed è circondata dalla piccola, ma complicata questione della Puglia, della Calabria e Della Basilicata. Un mezzogiorno continentale che dovrebbe essere guidato da una città come la nostra, che invece si chiude su se stesso. Così pure Napoli, anche se non se ne capisce il motivo. Sì, ci sono tre milioni di abitanti, ma almeno 60/65 comuni, se la vedono loro, poi una città/centro nella quale però non c’è quasi più niente, tutte queste molecolari frammentazioni. Come dicevo prima, quindi non è più la città metropolitana del Mediterraneo, perché questo posto lo occupa Milano.
Il punto finale è stata la catastrofe di Bagnoli, il togliere una delle più grandi industrie italiane. Toltaci questa, ci abbiamo messo circa venticinque anni per capire quel che è successo. Solo ora abbiamo compreso che appartiene ad una di quelle questioni che si risolvono in magistratura, che chissà quando deciderà qualcosa sul da farsi di questa. Mi fermo qui.
Paolo Casati
Buongiorno a tutti, sono Paolo Casati, sono in visita a Napoli con Cristian Confalonieri, che è il mio socio. Ringrazio Mario Mangone per l’invito, è un piacere per me essere qui.
Sono qui per raccontarvi quella che è la nostra esperienza, quella che ha generato il modello dell’evento che è partito col design ed in parte la moda. Evento che oggi è esploso, secondo me anche troppo, per tutta una serie di argomenti.
Cercherò di essere veloce, però c’è un punto interessante, su quello che potrà essere lo sviluppo futuro di un percorso da fare qui, oggi.
Noi veniamo dal Politecnico di Milano, area design, dove ci hanno insegnato a lavorare su dei modelli, dei format, con capacità di essere poi replicabili in diversi contesti.
Quindi nell’esperienza di Milano cosa si vede? Dei format capaci di attrarre espositori investitori pubblici, restituendo nuove identità al territorio.
In una chiacchierata con Mario, oggi è uscito il tema delle mille identità di Napoli e della frammentarietà, data anche dalla costruzione della città. Milano si è basata prima su un asse design-moda, legato prima ad un concetto di “fiera”, per cui non c’entrava tanto l’industria.
La fiera ha messo in scena il design, su un contesto che era più largo, quello del Brianzolo, sede dei più importanti marchi di design. Quindi poi ha usato Milano, come palcoscenico.
Noi quasi venti anni fa, da studenti al Politecnico, ci siamo resi conto che col tema della comunicazione digitale, mancava una capacità di poterlo poi raccontare “fuori” il contesto. Quindi abbiamo comprato un dominio internet “Fuori Salone”, e da lì è apparso il nostro progetto. Cos’è successo? Che poi i nostri progetti sono stati capaci di costruire dei marchi, come se fosse un prodotto.
Chi siamo noi? Ci occupiamo di comunicazione e concept design, costruiamo identità e sviluppiamo progetti creativi networking e quindi siamo autori di progetti interni, oggi vi parlerò soprattutto di Brera e poi dei fornitori per clienti esterni.
Abbiamo sviluppato in quindici anni, più di 300 progetti e “Fuori Salone” è stato il primo a nascere ed oggi è tutt’ora in corso. Partiamo da un’esperienza che nel 2006 è stata vista nascere in zona Tortona, primo luogo di marketing territoriale. Un concetto che vede l’analisi della città e trasforma il concetto di quartiere in quello di zona.
Abbiamo così iniziato a capire che la valorizzazione del brand fosse molto importante come riconoscimento, soprattutto per chi voleva investire, da qui il ruolo dei privati.
L’anno dopo, ci rendemmo conto che ci serviva una struttura di servizio per promuovere spazi temporanei dove mettere in scena gli eventi e così ci inventammo “Milano Location”, un “airbnb” degli spazi per eventi, prima non esisteva una cosa del genere.
Nel 2008 ci spostiamo nell’area di Bovisa, un’area molto depressa ai confini della città facendo questo passo grazie ad un investimento immobiliare.
Milano si basa solo sul principio del mercato immobiliare, tutto ciò che accade e tutto ciò su cui si è sviluppata da Porta Nuova sino all’intervento di domani degli “Scavi Ferroviari”, o la fondazione “Prada”, si muove su questi interessi con un moltiplicatore di valore del quadro immobiliare. In sostanza la forza della rinascita passa per questo mondo.
Vi dico che ciò vediamo oggi. C’è un forte interesse europeo e internazionale sull’investire negli immobili della città. Cioè si sta cercando, nei settori di tutto il mondo, di comprare terra o aree intere. Da qui il primo co-working, fase B e un altro progetto in zona Bovisa che prendeva il modello da Tortona e cercava di replicarlo. Un progetto che è durato 3 anni, dopodiché l’operatore ha dovuto spostare l’area da Bovisa ad Expo. A quel punto il progetto è morto, poichè dove l’immobiliare non ha più interesse è difficile far crescere, o dare contenuto.
Nel 2010 arriviamo a Brera che il caso di cui voglio parlare oggi. Qui siamo passati ad un’altra area mecenate; in questo caso l’interesse dei privati riguarda grosse aree ex-industriali, con l’obbiettivo di creare una marca, per poi mettere a reddito i loro spazi.
È il 2014, sviluppiamo bene la Location che è il modello di “Milano sulla città” locato solo su un Distretto.
In quello stesso anno creiamo il “Fuori Salone”.
Cos’è? è l’insieme degli elementi spontanei e fondamentali distribuiti in diverse zone di Milano e che avvengono ogni anno durante il “Salone del Mobile”, che è il più importante evento legato al tema design dell’arredo.
Cosa non è “Fuori Salone”. Non è una fiera, non è una organizzazione centrale, non è gestito da un singolo organo istituzionale. Nasce spontaneamente negli anni ’70, ‘80 dalla volontà di alcune aziende di uscire dagli spazi espositivi, per andare in città e quindi fisicamente fuori dal “Salone del Mobile”.
Oggi il “Salone del Mobile” e il “Fuori Salone” costituiscono insieme l’appuntamento più importante del mondo per il design a livello internazionale. Che contano 1300 eventi distribuiti in città in 5 giorni, su tutti i quartieri. Il design a Milano è la più grossa macchina economica in termini di produzione indotta.
Cosa serve per partecipare a questo evento? Un contenuto, una location e un sistema di comunicazione; 3 ingredienti.
Il “Fuori Salone” è, in questo momento, l’unica guida ufficiale ed è nata da due studenti all’università; oggi è una piattaforma riconosciuta dal comune.
Si è sviluppato negli anni grazie ad un modello basato sul contenuto, non potevamo basarci su quello che era il mondo del prodotto, perché per quello c’è la fiera è abbiamo quindi sviluppato prendendo a sistema, contenuti ogni volta originali attirando diversi investitori, i partecipanti non fanno design di prodotto, ma tutt’altro. Arrivano da altri ambiti e quindi, se devo trovare delle economie, non le devo cercare nel soggetto che rappresento, ma in qualcuno che ha interesse nel contesto, nel pubblico che quel soggetto muove.
Oggi offriamo un servizio ai visitatori, offriamo anche un servizio di promozione per aziende che vogliono collegarsi. Questo schema mette al centro questo modello e i suoi strumenti. Un passaggio interessante perché “Fuori salone” è un evento diffuso su un unico contenuto ed è il format di riferimento. Su questo modello ne sono nati altri ad esempio “Piano City”, un evento che è a Milano, è a Roma, appena stato a Palermo. “Book City”, “Arte Week”, “Wine Week”. A Milano non c’è una settimana che passa dove non c’è un evento. È un generatore di opportunità.
Adesso parliamo del “Brera Design District” perché è il progetto (che nel 2019 compierà 10 anni) che ha messo a sistema tutte le nostre competenze, adesso è anche il modello che stiamo cercando di portare in giro come format replicabile. È il primo distretto di design italiano, perché in realtà Brera è diventato un brand, un passaggio importantissimo perché se da luogo diventa un marchio, diventa molto più facilmente vendibile.
È un’operazione di marketing territoriale. Ha come fine il mostrare le eccellenze culturali del territorio; opera coinvolgendo marchi e professionisti già presenti su di esso, e dall’altra parte sponsor temporanei che vogliono promuovere, in questo contesto, le economie che stanno al di fuori per metterle in scena all’interno. Nasce con l’intenzione di creare rete organizzata d’imprese e d’istituzioni, promuovendo un modello di sviluppo basato sull’evento.
L’elemento “evento” è importante. L’universo di “Brera” conta due eventi oggi: uno ad aprile e uno a ottobre; ha una piattaforma di consulenza legata agli spazi delle location; ha un suo luogo manifesto che è il “Brera Design Appartament”.
Come nasce e si sviluppa un progetto di marketing territoriale? Questo il modello che si potrebbe quindi applicare a Napoli. L’abbiamo provato ad applicarlo a Shenzhen (Cina), e stiamo cercando di capire se qui sia possibile.
Ho continuato a sentire che Napoli si guarda all’interno, che si parla un po’ addosso che è molto separata, che è molto frammentata, io conosco Napoli per i suoi quartieri.
A Milano la Camera di Commercio, che ha avuto l’intuizione di creare i DUC (Distretti Urbani e Commercio). A Brera si vedono quattro quartieri uniti, anche storicamente distanti tra loro, però oggi parte di un unico sistema, di un'unica identità.
Questo dei DUC format è un modello diffuso e consolidato a livello globale, in cui territorio e design sono leve di progetto, estendendosi poi in altri settori affini che costituiscono nuove identità per il quartiere.
Qui potete vedere una mappa mondiale dove sono stati evidenziati gli altri “Design District” del mondo. Prima di noi c’è stato: New York, Miami, Helsinki Londra.
Gli strumenti di queste altre esperienze internazionali li abbiamo analizzati e abbiamo cercato di arrivare al nostro. Oggi possiamo sintetizzare la nostra esperienza in nove punti, per noi sono i nove punti generali per realizzare un progetto di distretto:
1 - Identificare il luogo, passare dal concetto di quartiere a zona o district: sviluppare un senso di appartenenza e di identificazione, nel nostro caso un’area che passa per quattro quartieri: Moscovo, Garibaldi, Brera, MonteNapoleone
2 - Definire il/i soggetto/i, quali sono gli elementi permanenti che definisco questo valore? Nel nostro caso l’alta concentrazione di showroom del design, almeno sessanta fissi. Nella nostra lettura del territorio. Il distretto diventa vetrina dell’eccellenza del design italiano.
3 - Trasformare il Brand. Quando costruiamo un marchio bisogna stare attenti che ci sia un tema. Un contenuto del territorio. Quindi il luogo associato ad altro; “Brera”, “Duomo” o altro. Il soggetto, se non è “Design”, è “Food”, oppure “Movies” etc…
4 - Strutturare uno storytelling: ossia trovare una strategia di narrazione per rafforzare il rapporto con il pubblico, nel nostro caso ci raccontiamo attraverso un tema, che diamo ogni volta al “Fuori Salone”, che maturiamo a ottobre durante i “Design Days” (festival legato alla cultura del progetto).
5 - Definire gli strumenti e i sistemi di interconnessioni. Si comunica quindi grazie ad azioni online e offline, in dialogo tra loro.
6 - Applicare i format commerciali. Il circuito “Brera Design Days” punta all’adesione di players legati al distretto. Showroom e sponsor, perchè è possibile aderire alla nostra piattaforma in diversi modi.
7 - Costruire relazioni, le partnership. Fondamentali bisogna lavorare attraverso la rete, non si può pensare di esser da soli bisogna sempre creare dialogo con tutti gli “attori” partecipanti.
8 - Sviluppare dei servizi a supporto: creare un valore di marca. Noi siamo partiti monetizzando in una settimana, oggi monetizziamo durante tutto l’anno, perché abbiamo creato quei servizi che ce lo permettono, come “Brera Location”, oggi promuoviamo più di 100 spazi temporanei; dalla galleria d’arte, al negozio, alla location. A Milano ultimamente c’è l’esplosione delle Location e degli spazi temporanei, perché viene meno la parte legata agli uffici e più le attività che diventano “smart”, “temporary”. Gli spazi temporanei hanno una redditività maggiore rispetto a quelli a canone.
9 - Implementare in una seconda fase dei progetti speciali: vi parlavo del “Brera design Apartment”, che è un appartamento che diventa la nostra casa-manifesto. Tra i primi progetti il “The Visit” un allestimento curato dallo studio Pepe di Milano. Che ha visto nove copertine su nove testate mondiali legate al design. Un modo per far arrivare il nostro marchio, attraverso progetti di contenuto che ne raccontano il «dna», in questo caso il concetto di design, di casa, di una certa ospitalità, di un’identità di Brera.
Cos’è oggi Brera? È il distretto più richiesto, se prendessi ora il telefono, potrei vedere una richiesta continua di spazi, da tutto il mondo, tutti vogliono essere lì. Prima volevano essere al “Fuori Salone” oggi vogliono essere tutto l’anno là, con il loro negozio, quindi l’operazione ci è riuscita. Anzi siamo in punto critico, Perché siamo arrivati al vertice più alto e potenzialmente potrebbe esserci un crollo; cerchiamo di capire come gestire il successo per mantenerlo e non andare in down.
Questi i dati delle attività a supporto. Il “Brera Design Days” è un festival legato alla cultura, sposta l’idea del prodotto al contenuto, oggi per noi design non è il tavolo o la sedia ma molto di più, parliamo di “gaming”, “ramification”, “formazione”. Parliamo di elementi trasversali.
Tanto il successo, che ci ha chiamati la municipalità di Shenzhen, che ha una fiera che si occupa di design in Cina, chiedendoci che fosse possibile replicare il modello del “District”, anche nel loro contesto. Abbiamo così fatto la collaborazione di un anno, anche con un docente del politecnico e un altro studio di architettura, e abbiamo fatto un lavoro di consulenza strategica per capire se il modello fosse applicabile. Poi messo in scena direttamente durante la “Shenzhen Week”, il risultato, che non è applicabile perché c’è una diversa dimensione di spazio e di tempo e di numero di soggetti che non permetteva, secondo noi, quel risultato.
Massimo Lo Cicero
Queste cose che hai appena descritto sono molto interessanti, cerco di reinserire il discorso Milano-Napoli. Nel 2008 Lehman Brothers salta e con lei tutta la struttura finanziaria americana, che si ribalta come una specie di ondata sulla struttura economica europea. In questo quadro europeo però l’unica “cosa” complicata è l’Italia. L’Italia è l’unica nazione che ha una cosa che funziona male al sud, e una cosa che funziona bene al nord.
Draghi nel 2004 abbatte tutti i tassi interesse, li mette addirittura sotto zero e tu dal 2004 al 2018, hai fatto queste operazioni che ci hai appena mostrato che sono estremamente efficaci, perché facendo cadere i tassi di interesse Draghi, che cosa succede: che voi
riuscite a prendere prima quella prima parte dove c’erano quelle cose strane, le prime cose che tu hai detto insomma, legate alla Zona Tortona.
La prima zona, la vai a prendere, quando non era ancora funzionante, tu ci metti sopra un mark up e cominci a farla funzionare. Fai la stessa operazione dal 2014 su un’altra territorio. Anche se non è proprio territorio, è più organizzazione.
C’è una questione, che a prescindere dalla caduta del 2008 degli americani, a Milano ci sono 30.000 euro per ogni persona che riesce a lavorare, a Napoli ce ne stanno 16.000. E quindi il problema, o meglio nel mezzogiorno, ci mettiamo più roba da fare o per ovvie ragioni non ce la facciamo. La città di Napoli è l’unica grande città del sud, ma in realtà non lo è come appunto dicevo prima, nonostante abbia un’industria, ma che rispetto a quella del nord è troppo poco. Qui c’è un sacco di disoccupazione, mentre là grazie al numero più consistente d’industrie c’è più occupazione. Questa casa che tu ci hai mostrato adesso per il nostro territorio è difficile proprio nel portarla in avanti. Persino i cinesi non ce la fanno.»
Mario Mangone
Ero sicuro che l’intervento di Paolo Casati, ci avrebbe messo in grosse difficoltà. Ma voglio superarle, portando più avanti il suo discorso. Dopo aver sentito una relazione di questo tipo, istintivamente ci viene da dire: ma dateci una mano, diteci come fare, proprio come hanno fatto i cinesi. Ma ritengo, questo, non sia il comportamento giusto. Piuttosto preferisco quello della sfida reciproca da portare avanti.
Noi come nazione, come sistema Italia, in questo contesto europeo, dobbiamo urgentemente superare questo distacco nord-sud, per cui come diceva prima Massimo Lo Cicero, è come se oggi Napoli fosse una sorta di buco nero nella scansione del tempo storico, infatti dobbiamo considerarlo così, quella che possiamo considerare per Napoli, la grande rottura nel XIX secolo. Questa rottura noi napoletani, noi nel sud, non l’abbiamo ancora assimilata, non l’abbiamo ancora attraversata adeguatamente, per via delle frizioni, le inerzie, incapacità di far rivalere situazioni ibride. È come se noi dovessimo riprendere il discorso da lì, da quel passaggio, per rilanciarlo nel contesto più generale della competizione internazionale.
A questo punto vi pongo una domanda. Un nuovo sistema Milano-Napoli, potrebbe dare una risposta nuova, nell’ambito di questa competizione internazionale? Cioè quest’ultima può essere vissuta soltanto col format milanese o tutto va rimesso in discussione secondo una nuova logica, un nuovo format strategico di livello nazionale?
Per non farla lunga e per andare al nodo strutturale dell’argomento, ritengo che se Napoli può dare un grosso contributo, questo sia quello della categoria del “Tempo” e dicendo ciò, sono consapevole che rischio di non essere capito.
Per essere più chiaro vorrei fare riferimento alle esperienze legate alle Grandi Esposizioni Universali di fine ottocento in Europa ed in America, con particolar riferimento all’Esposizione di Chicago nel 1893. Sarebbe opportuno studiare bene questo capitolo, perché si capiscono molte cose che ancora determinano dei grumi teorici e culturali profondi. Una navigazione nella loro storia, che m’aspettavo si facesse in modo più approfondito nell’ultima Expo di Milano nel 2015, invece nulla di tutto ciò, perché si è navigato sulla superficie di questa tema, sulla cronologia della loro storia.
Cos’erano le Grandi Esposizioni Universali? Erano delle grandi macchine produttrici di “Tempo”, di esperienza del tempo urbano ed è a Chicago che si sviluppa la prima grande separazione ed emancipazione della cultura americana da quella europea, è in essa che si simula una nuova esperienza urbana, entro cui si gettano le basi per tutte quelle categorie, linguaggi fondativi della moderno novecentesco: fotografia, pubblicità, televisione, architettura seriale, natura artificiale ecc. poi scoppiate nella grande industria dello spettacolo americano. E’ in essa che ritroviamo la grande faglia epocale che determina una gestione potente del “Tempo”, di natura imperiale, che poi come un tsunami permanente soffierà sull’intero territorio del pianeta e che oggi si è trasferito sulle grandi piattaforme tecnologiche di Google, Facebook, ecc., in una sorta di permanente sfida verso la smaterializzazione della città fisica, degli oggetti, verso il superamento di ogni limite fisico. E’ rifacendoci a quella storica faglia epocale che noi dobbiamo riferirci, perché potremmo capire meglio l’evoluzione di quel grande fenomeno che oggi viene chiamata “dittatura del presente”, della cancellazione del futuro e del passato, la cui conseguenza determina una dedizione di massa, disponibile solo consumo di un “eterno presente”, funzionale ai profondi meccanismi del sistema di sviluppo globale.
Oggi le grosse industrie multinazionali cercano di gestire la dimensione del tempo, addirittura del singolo tempo, quello privato e più intimo. La questione è chi progetta, chi gestisce questi processi? Come gestiamo il nostro tempo? E questo tempo relazionato alla struttura fisica della città come si comporta? Come si è sviluppata? L’ho fatta semplice, ma il tema è molto complesso.
Napoli su questo tema, può dare un contributo enorme perché all’interno di questa città c’è la storia di tutti i tempi, una stratificazione immensa. E quindi paradossalmente è come se in un solo istante, ci fosse un viaggio istantaneo in tutti i tremila anni della sua storia. Mentre le piattaforme tecnologiche c’è la fanno vivere in forma tecnologica. A Napoli lo vivi fisicamente, attraverso le sue architetture, i suoi grandi paesaggi.
Per questo, ritengo giusto mettere a confronto le due realtà , quelle del format milanese, ampiamente sperimentato con successo (anche perché congeniale ad un sistema economico consolidato) e quello napoletano frutto di una realtà a-simmetrica, non congeniale ai tempi dello sviluppo tipico globale.
In quanto napoletani, non abbiamo appunto capacità di produrre merci, manifatture, design o altre cose. Lo facciamo pure, ma senza eccellenze, senza sistema. Il problema è mettere subito in gioco la nostra realtà territoriale che è di una potenza spaventosa, inimmaginabile. Anche se non abbiamo la capacità, gli strumenti per saperlo vendere, è come se dovessimo chiedere a Milano, mettiamoci in gioco insieme. Se si può, confrontiamoci su questa dimensione della produzione e gestione del tempo nelle strutture urbane. Se questo non fosse possibile, sarebbe il segno di un sistema paese monco, di una profonda rimozione di ciò che è il nostro paese oggi.
Ma se esiste la minima possibilità di giocarci questa carta insieme, perché non farlo? Sui contenuti però, non sulle teorie astratte dei format territoriali, o comunque inseriamo nel progetto dei format con nuove nuove coordinate: imprevedibili, affini al profondo senso e significato di ciò che sono le città europee e mediterranee, nel contesto globale.
Nel momento in cui progetteremo un intervento: piccolo, medio grande, deve subito avere la scala di riferimento tra il globale e il locale, per cui individuo un’area del centro storico di Napoli, la delimitiamo, creiamo una rete di situazioni già esistenti.
E’ sul tema della comunicazione, là sì che dobbiamo collaborare. Cioè siete voi che in questo caso ci dovete dare una mano, perché le relazioni internazionali, non ci appartengono, sapete voi come fare. Poi ci appelliamo alla nostra realtà, sperimentiamo e con l’aiuto di tutte quelle persone scelte, degli esperti che possiamo coinvolgere, vi garantisco che ci sono tutte le possibilità di strutturare un progetto molto interessante. L’anno prossimo ci saranno le Universiadi e quindi la capacità di accelerare il nostro progetto confrontandoci con la “Capitale della Cultura” a Matera, il Salone del Mobile, con la disponibilità di Nikos Ktenàs con Atene dichiarata in queste giornate, insieme ad altre realtà urbane. Gemmare quest’iniziativa, almeno nel triangolo Napoli-Atene-Milano-Londra, compatibilmente ad un cervello collettivo che deve iniziare a ragionare in modo chiaro e preciso. Inoltre in questa iniziativa è un obbligo, coinvolgere Italo Ferraro sulla base delle sue conoscenze, per capire in che modo tutto lo strumento conoscitivo che lui ha consolidato negli anni e nel suo prodotto “L’Atlante della Città Storica di Napoli” come può essere messo al servizio di questa operazione, di questo progetto. Appunto come costruire una narrazione globale sul tempo della città?
Italo Ferraro
«Intervengo senza sentirmi all’altezza, molto interessante questo caso. Come voi bene sapete produco questi risultati, quello dell’Atlante appunto, ma in un numero di copie ridotte, che si hanno ad un costo medio di 250 euro, ma mi limito a raggiungere le duemila copie. Si tratta, quindi, di aspetti straordinariamente deboli, anche se li vedo certamente collocati in modo altissimo.
Mi sembra che i contenuti che io traggo dalla città di Napoli, e che vorrei chiarire non ritengo che costituiscano un metodo valido per trovare dei contenuti analoghi in tutte le città, Ma il modello dell’”Atlante” mi sembra un prodotto che possa essere utilizzato solo in una struttura stratificata, come Napoli.
È stato felicissimo per me, l’incontro con Nikos Ktenàs di Atene, perché ha chiarito in modo limpido che una cosa simile per quella città non è valido. Atene non ha bisogno di un atlante, e infatti le scelte di Nikos sono state completamente diverse. Abbiamo il confronto con un vero autentico progettista/architetto, e con uno studioso della forma della città, perché tale sono, non uno storico, sono formato anch’io come progettista, anche se le nostre strade sono diverse.
Vedrei molto di buon occhio una prova del format Milanese a Napoli così come lo si è fatto in Cina.
Da una parte sono assolutamente fatalista e nello stesso tempo, a Napoli lo potresti spiegare con la questione “si nun teness a te, teness a n’at”, nel senso che mi prendo per buoni tutti gli obiettivi. Insomma ci starei benissimo anche in una cosa di questo genere.
Napoli ha un’unicità speciale. Come una donna specialmente bella. Poi c’è una questione, che la dico perché ho sviluppato un grande affetto per il nostro amico
di Atene, le città non muoiono mai, non possono morire. Se c’è qualcosa da raccontare è questo. Che le città hanno una vita e ce l’hanno indipendentemente da noi, noi possiamo contribuire a renderla interessante o meno, ma e lo dico con coscienza, non so come conciliare il fatalismo con progetti così estremi come questo in cui tutto è deciso. E mentre io da anni cerco di dimostrare che nulla è deciso, che noi seguiamo, e per far capire il concetto cito il gruppo dei medici intorno al cadavere dipinto da Rembrandt, sempre che quel cadavere si alzerà e se ne andrà. Che in fondo la ricerca è la ricerca su un corpo morto, invece chi studia Napoli, sa che la nostra è su un corpo vivissimo dove non possiamo mai trarre conclusioni, perché appena cerchiamo nell’intento ci accorgiamo che quel corpo ha già cambiato forma. So di non avere detto niente, me ne scuso, ma era quel che sentivo.
Nicos Ktenàs
Sento l’obbligo di dover dire anch’io due parole perché avevo un po’ paura di questa giornata sin dall’inizio. Viviamo in una società dove (io personalmente faccio questa battaglia con i miei studenti, contro l’immagine etc.) sembra che ci sia sempre più una specializzazione e dove, a prima vista, non esiste un punto d’incontro, un risultato comune. Non voglio fare il romantico non voglio dire che nessuno s’interessa più di architettura, nessuno si interessa più di quel che facciamo.
Secondo me la società di oggi è troppo mirata al profitto, e forse è questo il nocciolo del problema. Quando prima parlavate del vostro lavoro, vi posso garantire che negli ultimi anni a Milano io questo lavoro l’ho sentito, ne ho percepito l’atmosfera, il cambiamento. Tortona oggi è ulteriormente cambiata, e così anche Brera.
Come architetto penso, che in tutto questo ci dovrebbe essere lo spazio, perché noi di questo ci occupiamo. Non è esistito negli ultimi venti anni un prodotto che non si fotografa davanti un’opera di architettura.
C’è un collegamento, ripeto avevo questa preoccupazione quando mi son svegliato stamattina su questa discussione. Come si può arrivare al punto di diventare una società creativa, dove oggi c’è tanta specializzazione e non sappiamo come metterle insieme?
Campi troppo separati, tu parlavi di distretti ma questo è uno spazio di una città. Tu hai visto questa necessità di un luogo per esistere, e qual è il motivo per la quale Brera diventa il vostro spazio di promozione? E’ un quartiere storico, ha anche una valenza simbolica, con tutte le persone che ci hanno camminato sopra, tutti quegli artisti, tutta quella memoria. Non è un caso che il vostro modello non sia riuscito in Cina, lì è diverso, forse lì non esiste lo spazio.
Secondo me Mario è chiaro che l’economia fa andare avanti il mondo, ma dobbiamo trovare spazi comuni. A Napoli ho visto, nelle ultime quarantotto ore, una città straordinaria. Ieri sera abbiamo fatto una passeggiata nel “quartiere dell’amore” dove io non potevo pensare che potesse esistere una parte della città così, conoscendo quest’altra. Ci deve essere la spazialità, così come l’economia, c’è chi sostiene che deve entrarci anche la poesia. Arriviamo a questo punto comune della conoscenza delle nostre città, creiamo una bella cosa.»
Cristian Confalonieri
Sono socio di Paolo, sono molto d’accordo sul concetto di spazialità molto meno sul concetto di tempo, introdotto prima da Mario, per il semplice motivo che per fare questo tipo di progetto bisogna essere molto contemporanei. Oggi siamo nel futuro. Siamo in quel futuro già immaginato cento anni fa, ma anche già negli anni sessanta.
Siamo in un periodo dove è molto difficile pensare al futuro. Cioè siamo in un momento in cui non c’è più la fantascienza. Perché la fantascienza pensata da tutti è quella che abbiamo sull’Ipad, quindi parlare di tempo è un po’ un trabocchetto, soprattutto mentre stiamo vivendo una rivoluzione digitale che si basa sulla riduzione del tempo.
Il tempo non esiste online su facebook, il tempo non c’è, perché è tutto adesso e nello stesso tempo tutto è eterno.
Il termine del tempo è ovviamente un vincolo progettuale e nello stesso anche una cosa su cui dobbiamo fare i conti pensandolo in modo diverso da come abbiamo fatto tempo fa. Se pensiamo alla rivoluzione digitale che stiamo vivendo oggi (che sta persino cambiando la nostra postura di essere umano) non possiamo ignorare, il fatto che stiamo vivendo in un modo diverso, non abbiamo capito, che stiamo vivendo una rivoluzione
della quale siamo incoscienti e questo vuol dire che tutto quello che abbiamo in mente come progettisti va anche messo in discussione dal momento in cui si sta facendo il progetto.
Il discorso di prima, non posso fare una ricerca su un corpo ancora vivo, potrebbe essere che le conclusioni possano essere sbagliate. Ecco quella conclusione sbagliata non è detto che sia tale, quindi occhio a parlare di tempo, soprattutto per come poi ce lo immaginavamo qualche anno fa. Tutto qui.
Edoardo Alamaro
La relazione che ha tenuto Paolo mi ha veramente spaventato, ma non posso spaventarmi.
Fortunatamente è intervenuto Mario Mangone che ha tirato fuori un argomento, forse di cui avevamo già parlato insieme.
Faccio un passo indietro. Io vado sempre a Milano per il “Fuori Salone”, più che per il “Salone Del Mobile”, perché come Paolo ci ha detto è oltre il prodotto di design.
Vado là, un po’ come studioso, un po’ come ricercatore, un po’ per dire ma “questi milanesi sono veramente bravi nel fare queste cose”, un po’ perché è diventato un parco giochi.
Lì spesso incontro Mario, ma non perché ci diamo un appuntamento, ma perché lui addirittura si prenota sei mesi prima per parteciparvi, è tutto esaurito, Milano è tutta esaurita in quei periodi. Questo ci permette di parlarne insieme e sogniamo le possibilità che ci potrebbero essere per Napoli, che noi amiamo, se sezionate me, trovate tutte quelle stratificazioni temporali, dai greci, ai normanni, agli spagnoli ecc.
Ma che si può fare a Napoli. Mario ha tirato in ballo questa categoria del Tempo. Se riteniamo che i tempi della modernità, e quindi quelli della contemporaneità, siano quelli di Milano, e che noi qua siamo dei trasportatori dei moderni, è un discorso. Se invece riteniamo che siamo eredi di quella civiltà del mediterraneo che ha altri tempi e allora sentite la questione del design, che io premetto non ho mai amato, per me è un grande imbroglio. Questa parola design è pure una parola di una fortuna straordinaria che è riuscita a catalizzare un immaginario che era un immaginario italiano degli anni 50: il frigorifero la lavatrice ne è un altro.
Qui si è parlato del distretto più fortunato che attualmente è Brera.
Brera io l’ho conosciuta quarant’anni fa, l’amavo. C’erano gli studi dei miei amici, c’era l’accademia. Quando invece vado a Brera in quei giorni là, per me è irriconoscibile, quella per me non è Brera. E’ anche difficile per me starci fisicamente, sembra l’autobus di Napoli nell’ora di punta ed è sempre peggio.
Quindi devo dire che il discorso Tempo, che Mario ha tirato in ballo, a me ispira.
Ho un amico pittore di nome Armando De Stefano, non so se lo conoscete, il quale fu mandato a lavorare a Milano, ci è stato tre anni, e poi e ritornato qui, ma non come sconfitto dalla dimensione di Milano, o dalle gallerie, ma per il motivo che diceva Mario.
Diceva, io non ritrovo nei volti di questi abitanti, o abitatori (così avrebbe detto Roberto Pane), il tempo della città e quindi il mio tempo. È ritornato qua, magari penalizzato, perché insomma per chi lo conosce.
Tutto quello che Matteo Salvini non ha capito, la grande forza dell’Italia del domani saranno i migranti, loro arrivano qua coi barconi, sono desiderosi di consumare di entrare nella produttività. Vi potrei fare decine di esempi per farvi capire come sta cambiando la forma della città di Napoli con l’ingresso massiccio dei migranti, i quali diventano napoletani intrecciandoci con le loro tradizioni. La mia domanda allora caro Paolo, riguarda questo, il limite di questa forma, alla quale tu già accennavi, così mi è parso di capire quando parlavi di Brera. Ma secondo te, fino a che punto puoi spingere questa “asticella”? Tieni anche presente che per noi architetti non conviene. Là non c’è la qualità dello spazio. È vero si che l’architetto si occupa di spazio, ma ha anche la capacità di tenere il tempo e il senso del luogo, altrimenti diventa assolutamente una cosa fuori luogo.
Paolo Casati
Non saprei dove iniziare a rispondere, forse c’è un problema di punti di vista, cioè non si possono paragonare Milano e Napoli, non si possono paragonare i quartieri di Milano a quelli di Napoli. Di base dobbiamo capire qual è l’obbiettivo, qual è il punto di partenza.
Ci stiamo interrogando proprio su questo, cioè “l’asticella”, sul fin dove poteva arrivare, ora ci siamo arrivati. Mentre voi dovete ancora iniziare.
Rispetto ad un obbiettivo, rispetto a uno scenario, noi analizzando il momento ed in quei cinque giorni, ci rendiamo conto di che cosa può venir meno. La qualità dell’esperienza, giustamente dicevi al “Salone del Mobile” vado per vederci un prodotto al “Fuori Salone”, vado per vivere un esperienza, perché incontri persone, vedi qualcosa che non ti aspetti,
passi un tempo che è quello che a noi ci ha sconvolto da studenti, che è di qualità incredibile e per cui viviamo di rendita.
Le conoscenze che ne facciamo, i contatti, a bellezza, le opportunità che ci venivano proposte, in un epoca in cui il mondo di internet era all’inizio e non era quello che è diventato oggi, vivevamo delle esperienze fisiche, delle esperienze uniche ed oggi cosa rende ancora il Fuori Salone qualcosa di incredibile, l’esperienza che viene fornita all’interno di spazi di luogo che sono reinterpretati in quei giorni. Poi Brera e gli altri quartieri il resto dell’anno, se ci facessimo un passeggiata, tolta la dimensione turistica che è una messa in scena, formano ancora una città che ha spazi, rumori, odori, sguardi, che sono Milano.
È il quel frammento che si cambia il vestito e si mette in scena un palcoscenico. Non confondiamo poi la nostra operazione con quello che è tutti i giorni, è così in quel momento. E’ funzionale per creare il presupposto su cui poi le aziende vogliono raccontarsi, perché c’è un pubblico che le vuole ascoltare, le vuole vedere.
Abbiamo sì la paura che dopo tanti si stufino, perché non trovino più lo spazio per muoversi e per guardare, così ci siamo anche chiesti non è che dobbiamo pensare di creare anche delle categorie, a pensare ai vecchi target, di controllare gli accessi? Ma il “Fuori Salone” è nato democratico, accessibile a tutti.
La risposta quindi non ce l’abbiamo, sappiamo che c’è un rischio. C’è sempre un calo ed è fisiologico, è la natura delle cose, c’è un crollo e dobbiamo semplicemente prevederlo.
Io capisco la domanda, però ci tengo a precisare di non confondere le cose. Brera non è uno spazio che ha possibilità di costruzione, ma ha un suo confine.
Ai confini di Brera è stato costruito il quartiere Isola, il collegamento è stato fatto con un progetto di riqualificazione urbana, che i cittadini hanno anche osteggiato, che non hanno voluto, senza capire come quella diventasse una cerniera funzionale al collegare. È stata progettata sviluppando in verticale, ma creando tanti spazi aperti che oggi si vivono.
Non sono urbanista, non sono architetto, non so come si raccontano queste cose, ma abito in quel punto e vivo entrambi i quartieri. Li vivo da vent’anni a questa parte e vedo la relazione, vedo come hanno strumentalizzato il modello e hanno provato a costruire altri distretti isole, tutti vogliono sfruttare in territorio per avere un riscontro di reddito. Però non funziona in tutti i luoghi. Invece sta funzionando la viabilità degli spazi da parte dei cittadini nuovi, o anche dei milanesi. Ci sono tanti piani che si stanno intrecciando, ma siamo all’inizio di un percorso. Gli scavi ferroviari che avete visto, apriranno da qui ai prossimi venti anni. L’ultimo chiuso è la parte della fiera.
Milano è all’interno di questo processo di trasformazione per noi, io sono d’accordo con Cristian, il tempo non esiste oggi. Io non vedo il futuro, vedo il presente e basta. Vedo un presente su cui devo fare il meglio possibile per porre le basi per creare un futuro. Poco leggiamo, anche un passato e magari questo è un errore, e cerchiamo di fare il meglio per il presente, che è lo spazio-tempo che ci viene concesso, lavorando. Siamo anche pronti a smontare, non abbiamo l’aspirazione di fare qualcosa per l’eternità il progetto Brera Design District potrebbe finire, chi se ne frega. Un esempio molto interessante per Napoli secondo me è Palermo, questa attraverso “Piano City” attraverso “Manifesta” è una citta che ha qualche punto di contatto con Napoli. L’ho vissuta quest’anno, ha un discorso di energia della città, di un ritorno verso la città .
Anche miei amici di Napoli mi raccontano che sono stati anni a Milano e poi ritornano a casa, perché Napoli forse ha l’opportunità di costruire qualcosa oggi secondo quel modello.
Cosa c’è a Napoli? Lo spazio, i luoghi, l’unicità, una cultura intricata, un modo, un’attitudine.
Bisogna impostare dei contenuti, che sono dei “layers”, bisogna capire i luoghi e i momenti per metterli in scena e rappresentarli. Facendo così, creo una relazione, inserisco il presupposto per creare una relazione con chi vive la città. Creare un senso di appartenenza e di orgoglio,quindi connessione.
Se domani mattina mi dovessi sedere a tavola e pensare cosa posso fare per Napoli, lavorerei in questi termini, non prenderei quel modello Milano per copiarlo ed incollarlo. Lì c’è un metodo che segue quella dimensione.
Su Napoli con altri modelli, perché è un altra dimensione, metto tutto in discussione.
Però teniamo ben presente che c’è uno spazio enorme di progettazione, enorme. Ma solo per il fascino e per l’incanto che ieri ho vissuto facendo una passeggiata con questo mio amico di Napoli dove ogni due metri c’era un racconto, un aneddoto pazzesco, sono ispirato.
Poi a voi serve qualcuno che paghi, perché il problema è sempre quello, chi paga qualcuno che abbia il tempo, lo spazio, le risorse per costruire questo modello? A Milano
pagano i privati, le aziende, gli sponsor. Per il resto d’Italia mi sono reso conto che esiste un modello che per noi non è mai esistito che è quello pubblico: le gare, i bandi, i fondi.
Io e Cristian siamo nati brianzoli, cresciuti con la segatura, siamo stati abituati a fare quello che si può fare con quello che è in tasca, il resto non c’è, non esiste. Non andare a chiedere a qualcuno di darti qualcosa, se lo fai lo fai con il tuo. È il nostro modello e se lo fai lo fai per avere profitto tu e il privato.
Se sta cambiando qualcosa è nell’esasperazione dei nostri modelli, prima eravamo in due: c’era il design, c’era la moda. Ora c’è “Food City”, “Book City”, “Piano City”, “Art City”, “Wine City”. E questo che significa? Che quando arriva l’amministratore delegato di una multinazionale o di un’azienda automobilistica, ha un piano di un anno di investimenti e deve decidere dove allocarli prima aveva una scelta più limitata.
“Chi vi sta minando?” è la domanda che mi ha fatto un gruppo di studenti alla Bocconi che userà il nostro brand per uno studio di marketing. Mi hanno chiesto: “chi è il tuo competitor?”.
Ho prima pensato non esiste, poi invece mi sono reso conto che sono gli altri modelli che hanno copiato e che generano una cosa che è la novità che è la peggiore arma perché la novità ti fa uscire sulla carta stampata che attira il pubblico.
Un domani potremmo perdere il nostro vantaggio competitivo per due motivi: uno è la dispersione, l’altro la tecnologia. Proprio quei ragazzi della Bocconi, i più giovani, mi hanno detto che se su facebook e su instagram non ci diamo una mossa, arriveranno quelli che noi eravamo nei confronti di Mondadori, e così ci fregano. S’inventano un'altra cosa, si prendono il pubblico e tu hai costruito qualcosa che si sgretola. Per fortuna non è una fabbrica, non è nulla, sono solo idee e nomi, forse c’è un saper fare. Siamo consapevoli di questo, siamo consapevoli che tutto può crollare. Io vorrei fare un progetto a Napoli, così come in altri luoghi d’ Italia. Quella roba là a Milano è andata, che dobbiamo fare più. Abbiamo questa attitudine a pensare dove mettere un seme, usare la nostra esperienza e creare nuovi stimoli.
Ormai a Milano per noi c’è un guadagno siamo molto attenti a questo, non siamo sognatori ma imprenditori, che poi usiamo la cultura, ma siamo imprenditori. Usiamo un modello di impresa e siamo attenti a quelle logiche.
Massimo Lo Cicero
Allora, facciamo quest’ultima chiacchierata, perché è molto interessante tutto quello che abbiamo ascoltato. Aggiungo qualcosa di carattere accademico, dal 2010 al 2018 ci sono stati sette o otto premi Nobel, di questi otto, tre persone, provenivano da una società ebraica, i tre hanno vinto il premio di economia nonostante fossero psicologici. Nel mondo che si sta ricostruendo, in cui ci chiediamo cosa succederà dopo, certamente questa caratteristica della psicologia che insegue l’economia sarà molto ben costruita.
Perché costruire la psicologia sull’economia? Primo, perché altrimenti c’è troppa matematica, gli economisti rischiano di diventare pazzi. Unire le due cose può servire, il cervello ha il dodici-tredici per cento di quello che noi recuperiamo dormendo, tutto il resto lo fa il cervello senza dircelo. Il cervello mente linguaggio. Il linguaggio fa quello che vorremmo fare? Il linguaggio utilizzato per capire quello che succederà. Questo serve per capire quello che tutti dicono, siamo nella società tecnologica. Questa si deve leggere attraverso la Grecia, con Nikos Ktenàs, struttura della forza e logos struttura del linguaggio. Tutti i cretini che parlano di tecnologia parlano della tecnologia che abbatte il linguaggio, è invece esattamente il contrario. Se gli esseri umani devono allargarsi sul linguaggio, devono prima fare questo, poi riprendere lo strumento per rifarlo. Tu hai detto proprio questo ora. Parlando in questo senso e in questa direzione questa questione e una cosa che in Europa è molto più discutibile che in America. In America nel novecento è nata la questione marketing, non è niente altro che il guardare il consumo e coloro che consumano in Europa, si diceva che bisognava produrre tra i più forti americani Ford. Quest’ultimo disse agli altri cari amici, io aumento i salari, se non li aumento chi se le compra le macchine? Se non hai di fronte a te una platea che vuole comprare una cosa che la produci a fare? Tu hai fatto un’operazione di prosumer grandiosa. Il prosumer è quello che vede il consumo, capisce che può acquisire il consumo, che piglia e compra. Dal punto di vista europeo noi viviamo, non poi tanto lontani nella condizione in cui pensavamo che le cose fossero asset, e che il resto fosse debito da riconoscere rispetto agli assett. Noi dobbiamo vedere come usare l’oggetto. I beni culturali non si devono rompere o riprendere, ma si deve capire come devono funzionare ed è una questione che non rientra negli assett ma nelle capacità di fare. Che bisogna farlo in maniera adeguata.
Un professore straordinario “la Torre e la Piazza”, torre e piazza stanno sul titolo, e sulla illustrazione di queste ha scritto gerarchie e re. Nel mondo di oggi bisognerebbe cercare la relazione in chiave orizzontale. Questa piazza-rete. Salvini è un vero cretino, pensa di essere lui la gerarchia, ma la gerarchia non sta in alto sono persone che pensano di
essere così gerarchi. Accese che prendono la rete e la alzano in alto. Per questo Napoli non funziona. Quando c’era Cenzato, quello che ha fatto per la prima volta nel sud, il capo della categoria meridionale. Se parliamo di Napoli uno che fa il capo per scendere prendere la rete e portarla in alto. Noi non abbiamo con chi parlare. Una forma organizzativa di collaborazione come può essere strutturata?
Italo Ferraro
Ora allo stato delle cose che si siamo detti, la questione di fondo, è che lui ha posto una condizione, quella del ritorno economico, se questo non c’è la questione non esiste. Naturalmente questo è fondamentale, ma non è che allora ti diciamo “benissimo siamo d’accordo”. Perché? Perché non siamo affatto d’accordo. L’intellettuale meridionale ha sempre avuto una caratteristica, che non ha accettato che il prodotto del suo ingegno diventasse merce. Poi un'altra questione che personalmente mi riguarda assolutamente è che l’atlante è scritto per puntare all’eternità, una cosa che vuole andare oltre al valore delle duemile copie che avranno borghesi, naturalmente l’ho scritto con l’intento di venderlo agli opposti, ma ho dovuto capire che libri di quella portata li avrebbe potuti comprare solo uno di Piazza de Martiri.
La questione è che il progetto richiederebbe da parte loro una gran voglia di mettersi in gioco, naturalmente anche da parte nostra. Credo però che il compito più difficile sia per loro. Perché contraddice i fondamenti del loro lavoro. Devono aver voglia di misurarsi con, non lo chiamerei così ma non trovo altri termini, con il nostro difetto o la nostra mancanza.
Confronto tra due poli di una contraddizione. Noi ci contraddiciamo, ma il che costituisce il motore della realizzazione.
Massimo Lo Cicero
Sempre Brera, lui non la considera nei palazzi. Non la considera assett, lui fa girare una serie di sviluppi e questi, se si fermano si fermano.»
Italo Ferraro
Ma mi sembra che loro si sono espressi nei termini che la soddisfazione per quello che hanno fatto genera anche un’insoddisfazione, e mi sembra che abbiano visto quello che proponiamo noi, o che non proponiamo, come una sfida. Mi sembra che gli piaccia.
Ha parlato di essere affascinato. Buon a sapersi perché un altro aspetto fondamentale è la passione.
Paolo Casati:
A noi l’imput è sempre stata la passione, trasformatasi in lavoro, lavoro, lavoro e poi sono arrivati i risultati.