11 APR 2022 TIME EXPERIENCE COMMERCIAL 

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NAPOLI E LA "TEORIA Y JUEGO DEL DUENDE" di Federico Garcia Lorca

Federico Garcia Lorca

La serie di conferenze di Federico García Lorca, scritte tra il 1922 e il 1935 e tenute in differenti città della Spagna e dell'America, costituisce la parte centrale del mondo teorico del grande poeta spagnolo. Lorca cercò con queste di comprendere ed interpretare le radici della cultura spagnola, la tradizione popolare e colta, le idee estetiche della sua stessa opera ed anche il processo stesso della creazione poetica. Di tutte, Gioco e teoria del duende, letta a Buenos Aires la sera del 20 ottobre 1933, è considerata da alcuni studiosi come il vero credo artistico di Federico García Lorca. Pubblicata a Buenos Aires nel 1942, sei anni dopo la morte del poeta, il testo integrale della Conferenza appare ora per la prima volta in Italia tradotto e pubblicato dalla nostra rivista. Cosi la descrive Pedro Salinas, poeta anche lui: ”Lorca, nonostante esprima con originalità e con un evidente accento personale il senso della morte, non ha dovuto ricercarlo. Lo incontra intorno a se nell”aria natale che respira, nei canti dei servitori della casa, in tutto ciò che la sua persona possiede di popolare, di eredita secolare», Alvarez de Miranda, storico delle religioni antiche, aggiunge: «Ciò che chiamiamo “poesia” di un poeta contemporaneo, Garcia Lorca, coincide in tutte le parti essenziali con i temi, i motivi ed i miti delle antiche religioni. Questa coincidenza si deve al fatto che entrambi i fenomeni, il poetico ed il religioso, scaturiscono  da uno stesso sistema di intuizioni sulla sacralità della vita organica». Lorca, quindi, raffronta la ricerca del duende, della magia della poesia, o del flamenco, o in ultima istanza  dell'essere andaluso, con la ricerca di Dio. Dice che quella gli produce un entusiasmo quasi religioso, sicuramente perché il duende, che è l'essenziale, non arriva senza la possibilità della morte, e la Spagna, senza dubbio, è un paese dove le cose più importanti possiedono un valore di morte; l’unico paese al mondo dove la morte e lo spettacolo nazionale”.

Per Lorca, ogni uomo, ogni artista, qualsiasi scala salga nella torre della sua perfezione e a spese della lotta che sostiene con il suo duende, non con il suo angelo, né con la sua musa, Questa distinzione è per lui fondamentale. Per Lorca, l’angelo abbaglia, ma vola sulla testa dell'uomo, si trova sopra di lui. Invece, il duende viene dal di dentro, è l'impulso tellurico, misterioso e funebre che lo unisce al sangue e a qualcosa di ancestrale. In definitiva, Lorca quando si riferisce al duende parla di quel potere che tutti gli uomini sentono e che nessun filosofo spiega. O, con una frase forse più riuscita e commovente di un vecchio chitarrista flamenco, di cui Lorca stesso si appropria, è «forza che sale dal di dentro, fino alla gola, dalle piante stesse dei piedi».

Il testo finora inedito in Italia di un celebre scritto del poeta sullo spirito misterioso del flamenco.

TEORIA E GIOCO DEL DUENDE

El testo hasta ahora inedito en Italia de un célebre escrito del poeta sobre el espíritu misterioso del  flamenco

TEORIA Y JUEGO DEL DUENDE

Dal 1918, anno in cui entrai nella Residencia de Estudiantes di Madrid, fino al 1928 in cui la lasciai, terminati i miei studi in Lettere e Filosofia, ho ascoltato in quel raffinato salone, dove la vecchia aristocrazia spagnola si recava per correggere la propria frivolezza da spiaggia francese, circa mille conferenze.               

Con la voglia d’aria e di sole che avevo, mi sono così annoiato che, alla mia partenza, mi sono sentito coperto da una leggera cenere sul punto di trasformarsi in pepe irritante.

No. Io non vorrei che entrasse nella sala quel terribile moscone della noia che infila come perle, con un sottile filo di sonno, tutte le teste, e mette negli occhi degli ascoltatori minuscoli gruppi di punte d'ago. ln modo semplice, con il registro nel quale la mia voce poetica non ha riflessi di legno, né angoli di cicuta, né pecore che all'improvviso diventano coltelli d'ironia, cercherò di darvi una semplice lezione sullo spirito nascosto della dolente Spagna. Colui che si trova sulla pelle di toro distesa tra i fiumi Júcar, Guadalfeo, Sil o Pisuerga (non voglio citare i fiumi insieme alle onde color criniera di leone che agita il Plata), sente dire con misurata frequenza: “Questo ha molto duende”. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a un cantante: “Tu hai una bella voce, tu conosci gli stili, ma non trionferai mai perché non hai duende".

In tutta l'Andalusia, roccia di Jaén o conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo scopre con istinto efficace non appena si manifesta. Il meraviglioso cantante EI Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “Nei giorni in cui canto con duende, nessuno può competere con me”, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò un giorno ascoltando Brailowsky suonare un brano di Bach:"Olé! Questo ha duende” e si annoiava con Gluck e con Brahms e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l'uomo con più cultura nel sangue che io abbia mai conosciuto, ascoltando Falla che suonava il suo Notturno del Generalife, disse questa splendida frase: “Tutto ciò che ha suoni neri ha duende” E non esiste verità più grande.

Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove ci giunge ciò che nell'arte e sostanziale, Suoni neri, disse l'uomo popolare di Spagna, e coincise in questo con Goethe, che dà la definizione del duende parlando di Paganini:”Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”.

Così, il duende è un potere e non un operare, e un lottare non un penare, lo ho sentito dire a un vecchio maestro di chitarra:” Il duende non si trova nella gola; il duende sale dentro, dalla pianta dei piedi.” Come dire, non è questione di capacità, ma di vero e proprio stile vivente; cioè, di sangue; di vecchissima cultura, e, allo stesso tempo, di creazione in atto. Questo “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”, è, insomma, lo spirito della Terra, lo stesso duende che bruciò il cuore di Nietzsche, che lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende che lui inseguiva era saltato dai misteri greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido strozzato della siguirija di Silverio.

Cosi, non voglio che nessuno confonda il duende con il demone teologico del dubbio, contro il quale Lutero, con sentimento bacchico, scagliò una boccetta di inchiostro a Norimberga, né con il diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che porta con se il Malgesì di Cervantes nella Comedia de los celos y las selvas de Ardenia.

No.Il duende di cui parlo, oscuro e tremante, discende da quell’allegrissimo demone di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno in cui bevve la cicuta, e da quell'altro malinconico demonietto di Cartesio, piccolo come una mandorla verde, che, stufo di cerchi e linee, usciva peri canali a sentir cantare i grandi marinai confusi. Per qualsiasi uomo, per qualsiasi artista, si chiami Nietzsche o Cézanne, ogni scala che sale sulla torre della sua perfezione è a costo della lotta che sostiene con il suo duende, non con il suo angelo, come e stato detto, né con la sua musa. E' necessario fare questa distinzione, fondamentale per le radici dell'opera umana.

L'angelo guida e diletta come San Raffaele, difende e previene come San Michele, annuncia e prevede come San Gabriele. L'angelo abbaglia, ma vola sopra la testa dell'uomo, in alto, sparge la sua grazia, e l'uomo senza nessuno sforzo realizza la sua opera, o la sua simpatia o la sua danza.

L'angelo della strada di Damasco e quello che entra dallo spiraglio del balconcino di Assisi, o quello che segue i passi di Enrique Susón, ordinano, e non c’è modo di opporsi alle loro luci, perché agitano le loro ali d'acciaio nell'ambiente del predestinato.

La musa detta e in alcune occasioni soffia. Può fare relativamente poco, perché ormai è lontana e talmente stanca (io l'ho vista due volte), che hanno dovuto metterle mezzo cuore di marmo. I poeti ispirati dalla musa sentono delle voci e non sanno da dove vengono, ma sono della musa che li incoraggia e a volte se li mangia, come nel caso di Apollinare, grande poeta distrutto dall'orribile musa con cui lo dipinse il divino angelico Rousseau. La musa risveglia l'intelligenza, porta paesaggi di colonne e falso sapore d'alloro, e l'intelligenza molte volte è nemica della poesia, perché limita troppo, perché eleva il poeta a un trono dagli spigoli taglienti, e gli fa dimenticare che presto se lo possono mangiare le formiche, o gli può cadere sulla testa una grande aragosta di arsenico, contro la quale non possono far niente le muse che vivono nei monocoli o nelle rose di tiepida lacca del piccolo salone. Angelo e musa vengono da fuori; Vangelo dà luci e la musa forme. (Esiodo imparò da lei.) Pane d'oro o piega di tunica, il poeta riceve norme nel suo boschetto d'alloro. Il duende, invece, bisogna svegliarlo nelle ultime stanze a costo del sangue. E respingere l'angelo, e dare un calcio alla musa, e perdere la paura del sorriso di violette che esala la poesia del XVlll secolo e del grande telescopio nei cui cristalli si addormenta la musa, malata di limiti.

La vera lotta è con il duendeSono note le strade per cercare Dio. Dal modo barbaro dell'elleremita al modo sottile del mistico. Con una torre come Santa Teresa o con tre strade come San Juan de la Cruz. E anche se dobbiamo invocare con la voce di Isaia: “ln verità tu sei Dio nascosto”, alla fine Dio invia a chi lo cerca le sue prime spine di fuoco.

Per cercare il duende non c'è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che esaurisce, che rifiuta tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano che non ha consolazione, che fa sì che Goya, maestro dei grigi, degli argenti e dei rosa della miglior pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni con orribili neri di bitume; o denuda Mossén Cinto Verdaguer nel freddo dei Pirenei, o porta Jorge Manrique ad aspettare la morte nel deserto di Ocaña, o veste con un vestito verde da saltimbanco il corpo delicato di Rimbaud, o mette occhi da pesce morto al conte di Lautréament nell'alba del boulevard.

I grandi artisti del sud della Spagna, gitani o flamenchi, cantino, ballino o suonino, sanno che nessuna emozione è possibile senza la venuta del duende. Essi ingannano la gente e possono dare una sensazione di duende e senza averlo, come vi ingannano tutti i giorni autori o pittori o critici letterari alla moda senza duende; ma basta concentrarsi un po' e non lasciarsi trasportare dall'indifferenza, per scoprire l'inganno e metterli in fuga insieme al loro rozzo artificio.

Una volta la cantante andalusa Pastora Pavón, La niña de los Peines, ombroso genio ispanico, pari in fantasia a Goya o a Rafel el Gallo, cantava in una piccola taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d'ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio; e se l'arrotolava sui capelli o la bagnava nella manzanilla o la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente da fare; era inutile.

Gli ascoltatori restavano in silenzio. Era presente Ignacio Espeleta, bello come una tartaruga romana, a cui una volta domandarono: “Perché non lavori?”; e lui, con un sorriso degno di Argantonio, rispose: “Come faccio a lavorare, se sono di Cadice?”.

Era presente Elvira la Caliente, aristocratica prostituta di Siviglia, discendente diretta di Soledad Vargas, che nel 1930 non si volle sposare con un Rotschild, perché non le era pari per sangue, Erano presenti i Florida, che la gente crede macellai, ma che in realtà sono sacerdoti rnillenari che continuano a sacrificare tori a Gerione, e in un angolo c'era l'imponente allevatore Don Pablo Murube, con un”aria da maschera cretese, Pastora Pavón finì di cantare tra il silenzio. Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolo, di quegli uomini ballerini che escono all'improvviso dalle bottiglie di acquavite, disse a voce molto bassa: “Viva Parigi”, come per dire: “Qui non ci interessano le capacita, né la tecnica, né la maestria. Ci interessa un'altra cosa”. Allora La Niña de los Peines si alzò come una pazza, lacerata come una prefica medievale, e si bevve un gran bicchiere di acquavite come fuoco, e si sedette a cantare, senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola arsa, ma... con duende.

Era riuscita a uccidere tutta l'impalcatura della canzone, per lasciare il passo a un duende furioso e dominatore, amico dei venti carichi di sabbia, che faceva sì che gli ascoltatori si lacerassero i vestiti, quasi con lo stesso ritmo con cui se li strappano nelle Antille i negri del rito Iucumi accalcati davanti alle immagini di Santa Barbara.

La Nina de los Peines dovette lacerarsi la voce perché sapeva che la stava ascoltando gente squisita che non voleva forme ma midollo di forme, musica pura con il corpo succinto per potersi sostenere nell’aria. Dovette privarsi di capacità e sicurezza; vale a dire, dovette allontanare la sua musa e rimanere abbandonata, in modo che il suo duende venisse e si degnasse di lottare con vigore. E come cantò!  La sua voce non giocava più, la sua voce era un fiotto di sangue, degna, per il suo dolore e la sua sincerità, di aprirsi come una mano con dieci dita sui piedi trafitti, ma pieni di burrasca di un Cristo di Juan de Juni.

L'arrivo del duende presuppone sempre un cambiamento radicale in tutte le forme. In situazioni vecchie, dà sensazioni di freschezza assolutamente nuove, con una qualità di cosa appena creata, di miracolo, che finisce col produrre un entusiasmo quasi religioso.

ln tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, l'arrivo del duende e salutato con energici "Allah, Allah!", "Dio, Dio!", così vicino all'Ole!” delle corride che chissà non sia lo stesso, e in tutti i canti del sud della Spagna l'apparizione del duende è seguita da sincere grida di “Viva Diol”, profondo, umano, tenero grido, di una comunicazione con Dio attraverso i cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina; evasione reale e poetica da questo mondo, pura come quella raggiunta dallo straordinario poeta del XVII secolo, Pedro Soto de Rojas, attraverso sette giardini, o quella di Juan Calìrnaco con una tremante scala di pianto.

Naturalmente, quando questa evasione è compiuta, tutti ne sentono gli effetti; l'iniziato, vedendo come lo stile vince una materia povera, e l'ignorante, in un non so che di autentica emozione. Anni fa, in un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, vinse il primo premio una vecchia di ottant'anni contro splendide ragazze e ragazzi dalla cintola d'acqua, per il semplice fatto di aver alzato le braccia, sollevato la testa, e dato un colpo con il piede sul palco; ma nella riunione di muse e di angeli che c'era, bellezza di forma e bellezza di sorriso, doveva vincere e vinse quel duende   moribondo, che trascinava al suolo le sue ali di coltello ossidato.

Tutte le arti sono capaci di duende, ma dove trova più spazio, com'è naturale, è nella musica, nella danza, e nella poesia parlata, poiché hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti, perché sono forme che nascono e muoiono in modo perpetuo e innalzano i loro contorni su un presente esatto.

(continua)