Ad Urbano Cardarelli ed Alberto Notarangelo
Nell’arco di pochissimi giorni nel 1998, sono mancati due nostri cari amici e collaboratori, che hanno profuso nell’università ed in diversi centri internazionali di ricerca, un appassionato contributo agli studi sullo sviluppo della città in genere ed in particolar modo quella mediterranea. A questi nostri cari amici, dedichiamo questo modesto contributo e sempre più impegnati nel promuovere le loro stimolanti riflessioni, affinché si rafforzi sempre più un forte patrimonio conoscitivo a favore dello sviluppo civile del mediterraneo.
NELL’AMBITO DELLA VI BIENNALE INTERNAZIONALE DEL MARE
CASTEL DELL’OVO 9 OTTOBRE 1998
3° CONFERENZA
“Rapporto tra turismo di massa e preesistenze ambientali: arcipelaghi, siti archeologici fronte mare come spazio pubblico”
a cura
del COPAMED (Cooperazione Organismi Professionali Architetti del Mediterraneo) e del “Comitato Esposizione Internazionale Città del Mediterraneo”
Introduzione Arch. Mario Mangone - Coordinatore generale progetto Copamed
Prof. Benedetto Gravagnuolo - Ordinario Storia dell’Architettura Univ. di Napoli “Federico II”
Arch. Stefano Boeri - Consulente Ente Porto di Napoli
Prof. Luigi Caramiello - Sociologo
Introduzione Arch. Mario Mangone
Vorrei innanzitutto ringraziare la Fondazione Internazionale del Mare ed il Suo Presidente Pasquale Pallotta, per aver dato la possibilità alla nostra Associazione di organizzare un incontro sulle tematiche del mare, quest’ultimo considerandolo non solo come tema estetico, ma come elemento strutturale dello sviluppo territoriale.
Il mare, appunto, come tema connettivo di questioni più articolate e complesse, capace di far riferimento ad un’idea di sviluppo legata ad una realtà territoriale ambientale, fisica ed urbana come quella mediterranea. Proprio in rapporto al turismo di massa, alle preesistenze ambientali, agli arcipelaghi, al fronte-mare come spazio pubblico, questa mattina abbiamo intenzione di analizzare le relazioni che sussistono tra il fenomeno moderno del turismo di massa e la fruizione dei beni ambientali ed architettonici nell’area mediterranea.
Però prima di affrontare questi temi, vorrei porre alla Vostra attenzione una premessa di carattere metodologico, per arrivare infine ai temi più strettamente disciplinari dell’architettura, capaci di essere investiti da elementi strategici più generali.
Definisco brevemente dei blocchi tematici per i quali noi oggi siamo impegnati a precisare la categoria culturale dell’immaginario mediterraneo, facendo riferimento classicamente a tre categorie su cui normalmente ci confrontiamo.
La prima è la relazione strettamente legata alla consistenza dei centri storici presenti nell’area mediterranea, delle sue risorse materiali e quindi di una particolare dimensione del rapporto tra antico e moderno, tra memoria e innovazione, tra storia e futuro; questa è già una prima categoria che individua classicamente il tema dell’immaginario mediterraneo.
Una seconda categoria è quella che fa riferimento ai rapporti tradizionali che si innestano su un nuovo tessuto di sinergie economiche, produttive, culturali e progettuali, dunque importante è conoscere tali differenze strategiche all’interno di quest’area, la definizione di modelli di intervento che possono valere non solo per essa, ma che possono valere anche per aeree al di fuori del nostro limite geografico, una sorta di laboratorio entro cui sperimentare questi modelli di sviluppo a volte anche differenti dalle categorie classiche vigenti nel mondo occidentale.
La terza categoria è quella della ri-definizione del bacino comunicativo dell’area del mediterraneo, un bacino sia produttivo, sia creativo, in grado di funzionare come parco planetario, analizzarlo nella sua omogeneità territoriale, nella sua interezza e rilanciarlo a scala internazionale come parco planetario, attraverso cui sia possibile definire delle relazioni ben precise capace di individuare per quest’area diversi modelli di intervento territoriale .
Ritengo appunto che siano queste le tre categorie classiche con le quali noi affrontiamo il tema del mediterraneo, tralascio appunto tutte le categorie tradizionali, riferite alla presenza in quest’area del sole, della natura e di tutti i luoghi comuni, inutili da celebrare in questa sede. Il problema appunto è quello di andare più a fondo di specifiche relazioni, per ritrovarne al suo interno i reali elementi produttori di immaginario culturale. Allora la domanda specifica che vorrei porre e quella di chi si chiede: perchè siamo costretti a soffermarci solo all’interno di queste categorie? Non è proprio invece alla luce dei processi in atto che queste categorie non funzionano più, non combaciano più con i processi di internazionalizzazione che stanno premendo su quest’area. Quindi la nuova frontiera dell’analisi è chiedersi, se questi processi abbiano violentato già di fatto una tradizione urbana, una tradizione culturale esistente sia in termini fisici e sia in termini più generali. E’ opportuno chiedersi, se non sia necessario definire prima la qualità di queste nuove categorie di sviluppo, che di fatto assumono forti valenze strategiche, per il semplice fatto che il vissuto quotidiano, il vissuto urbano, il vissuto di queste città è ormai veicolato dai media, che sono alla base di filosofie ben precise sia dal punto di vista strutturalmente economico, ma anche dal punto di vista dei consumi quotidiani, le quali condizionano fortemente strategie di carattere politico e di conseguenza incidono fortemente anche sulle forme organizzative e disciplinari delle professioni. Bisogna allora intervenire sui punti di rottura della tradizione industriale di massa, in quanto è proprio la cultura metropolitana che è giunta al suo apice, è giunta all’apice della sua funzione storica. Bisogna definire delle trincee avanzate in cui ci sia la possibilità di trasformare questa mentalità, rendere più adeguate le professionalità, tutte le professionalità e quindi adeguare gli strumenti di governo di questi processi. Strumenti di governo che fanno riferimento alle competenze professionali, al potere amministrativo e quindi alla possibilità di definire un accordo tra questi due soggetti, tra queste due aree, tra queste due realtà, in cui il progettare possa essere definito all’interno di ambiti sperimentali e non proiettati idealmente nel tempo e nello spazio.
E’ a questo contesto che il tema del turismo di massa può essere collegato e relazionato. Turismo di massa, beni culturali e beni ambientali, fanno riferimento ad un’idea avanzata sia del consumo del territorio (del suo uso, del suo immaginario), in quanto noi facciamo riferimento a un’idea avanzata della modernità. Rispetto a questo primo blocco su cui credo è possibile fare dei passi in avanti, per quanto ci riguarda come associazione Gron, come rete Copamed (per Copamed si intende Cooperazione Organismi Professionali Architetti dell’Area Mediterranea), abbiamo tentato di dare il nostro contributo.
Oltre alle conferenze che abbiamo tenuto nel ’96, in cui avevamo chiesto a gran parte degli organismi professionali dell’area mediterranea di aderire ad una confederazione a scala mediterranea, abbiamo poi l’anno scorso definito due obiettivi fondamentali: uno era quello della riorganizzazione, della strutturazione di questa rete a scala mediterranea e in seconda battuta definire, attivare un progetto che doveva definire una sorta di vetrina della strategia che volevamo attuare, così in sede notarile abbiamo costituito un comitato chiamato Comitato “Esposizione Internazionale Città del Mediterraneo”. Attraverso questo soggetto giuridico abbiamo voluto definire un nostro punto di vista, una nostra proposta, innanzitutto un punto di vista strettamente professionale, rispetto a questo processo, capace di partecipare nel merito delle decisioni di carattere amministrativo, di permettere innanzitutto agli architetti di definire una loro proposta e contemporaneamente di svilupparne delle altre al nostro interno.
Da qui il nostro progetto, la costruzione di questa rete professionale a scala mediterranea che fa riferimento ai processi di internazionalizzazione e quindi definisce in blocco un suo peso, delle relazioni con i grossi comparti americani, nord-europei e sud-est asiatici, solo in questo modo è possibile far riferimento ad una categoria culturale legata ad uno “specifico mediterraneo” , che non vuole essere integralismo culturale ma entrare sul campo della modernità con un propria specificità e tradizione.
Ed è proprio in riferimento a queste iniziative precedenti che abbiamo quest’anno strutturato una terza conferenza, che funziona diversamente dagli anni precedenti, abbiamo definito una serie di sedute seminariali, in ognuno di esse sarà possibile ospitare architetti capaci di informarci sulle diverse città che affacciano sul mediterraneo e sarà anche l’occasione per coinvolgere questi ospiti all’interno del progetto generale dell’esposizione.
Dal ’99 tenteremo di proporre e di avanzare a tutte le Istituzioni e insieme a loro costruire questo progetto dell’Esposizione Internazionale Città del Mediterraneo; ovviamente è un progetto molto complesso che deve fare i conti con le difficoltà di carattere amministrativo e numerose difficoltà oggettive; quindi riteniamo ci debba essere da parte nostra un salto qualitativo, dal punto di vista organizzativo, per ciò che riguarda più efficaci riferimenti istituzionali e strategie tecnico-finanziarie.
Ovviamente dopo la Terza Conferenza Copamed tenteremo questo salto di qualità, cercheremo di definire una sorta di cuore finanziario, dei comitati scientifici allargati capaci di sviluppare una collaborazione proficua con tutte le istituzioni preposte a questo tema.
Quando sarà il momento daremo il via all’organizzazione dell’Esposizione che ha già avuto un primo passaggio positivo, infatti il Comune di Napoli ha già approvato un atto deliberativo che destina a questa Esposizione, a questo evento, gran parte del Centro Storico di Napoli, un po’ l’area che vedete alle mie spalle, che va da Capodimonte fino al Castel dell’Ovo. Quest’area sarà suddivisa in undici aree omogenee, in undici ambiti omogenei, ogni ambito avrà una sua gestione amministrativa e progettuale ben precisa, ci sarà ovviamente una sorta di regia progettuale che tenterà volta per volta di definire il processo da mettere in campo; tenete conto che questa è un’operazione molto complessa, se la si vuole organizzare per bene, essa deve mettere in gioco dei pubblici diversi: uno è quello locale urbano, il secondo è un pubblico turistico classico che si ferma qui a Napoli ed il terzo è quello legato agli itinerari del Giubileo. Quindi bisogna avere l’abilità di capire quali sono i desideri e i bisogni di questi differenti pubblici e rispetto ad essi tentare di definire un progetto di gestione dell’Esposizione Internazionale Città del Mediterraneo”. Vorrei qui brevemente esplicitare le nostre intenzioni in quanto noi riteniamo che tutta l’Esposizione può coinvolgere tutta la costa metropolitana. Noi riteniamo di poter collegare un’asse museale come quello di Capodimonte con Castel dell’Ovo e tralasciare le parti forti che sono il centro antico e i Quartieri Spagnoli lungo l’asse. Il problema è quello di considerare quest’asse come un’asse urbano, trasformato in un’asse espositivo dove la struttura urbana è vetrina di se stessa, quindi si auto-espone, si auto-promuove ed esso stesso va definito per punti, per parti precise. Capodimonte e Castel dell’Ovo possono essere a nostro avviso i due poli significativi e vogliamo definire un’attenzione maggiore verso quell’area che va da Castel dell’Ovo fino al Molo San Vincenzo; escludendo tutto l’intervento già proposto dall’Architetto Boeri. perchè lì c’è un progetto di ridefinizione, di rifunzionalizzazione dell’area, da integrare con soggetti simbolicamente molto forti, anche se effimeri. Da qui capire per esempio il ruolo del Molo San Vincenzo dove possono essere addensati tutti i padiglioni delle varie città che affacciano sul Mediterraneo, tutta l’area di Via Acton con i giardini e con i circoli nautici che possono acquisire un ruolo urbano almeno sul piano sperimentale, molto avanzato.
Tuttavia se il problema dal punto di vista progettuale può essere risolto cercando di avanzare quanto più è possibile i termini disciplinari, resta estremamente complesso sul piano della gestione delle aree, ritengo che nel momento in cui si va a progettare per un’Esposizione, questa anticipa delle funzioni che appartengono storicamente alla struttura urbana che tenta appunto, come si diceva prima, di mettere in gioco la propria storia, le relazioni, le differenze e i conflitti di un’area urbana, quindi in quanto tale, noi ci sentiamo di portare su una trincea molto più avanzata quella che è la discussione delle relazioni tra le parti urbane e quindi volevo sapere anche negli interventi successivi se c’è un accordo e se c’è una disponibilità a fare in modo attraverso singoli contributi, che questo evento venga messo in pratica, tenendo conto ovviamente che diamo per certa una vostra adesione ad un comitato scientifico.
Questo progetto fa i conti con l’assenza completa di progetti istituzionali, infatti per quanto possa sapere non c’è nessun progetto che da qua al Duemila possa minimamente avere la capacità di governare quello che succederà, ce ne sarà forse qualcuno chiuso in qualche cassetto, ma allo stato attuale non lo sappiamo. Mi sembra invece opportuno utilizzare quest’occasione per affrontare questi temi in forme tematiche, a nostro avviso, più avanzate. Noi cerchiamo di dare il nostro contributo per quanto ci è possibile, tentando di far avanzare la discussione su una tematica che risulta molto complessa e nel definirne alcune direzioni innovative ed originali verso nuove forme organizzative riguardanti noi professionisti architetti ed operatori culturali, nell’unificare intorno a noi quante più personalità o competenze. Non mi prolungo più perché credo sia più o meno chiaro quali siano le questioni tematiche che vorrei mettere in campo questa mattina nella discussione.
Io ringrazio innanzitutto i relatori presenti di questa mattina, ringrazio l’Arch. Stefano Boeri che ha avuto la sensibilità e la disponibilità di essere qui in questa mattina, ringrazio il Prof. Benedetto Gravagnuolo, che nel suo articolo pubblicato oggi sul giornale Repubblica cita la nostra iniziativa, ringrazio il sociologo Luigi Caramello, mio caro amico, con cui condivido lunghe discussioni sulla nostra difficoltà generazionale nell’affrontare progettualmente queste questioni e sulle nostre difficoltà per operare culturalmente in questa città.
La parola, allora, al Professor Benedetto Gravagnuolo, poi all’Architetto Stefano Boeri ed infine a Gigi Caramello e ringrazio tutti i presenti che hanno ritenuto essere qui questa mattina.
Intervento del Prof. Arch. Benedetto Gravagnuolo
Proverò a porre le questioni in termini dialettici cercando di capire il rapporto tra turismo di massa e preesistenza ambientale come qualcosa che appunto mette in relazione i due termini e in quanto tale bisogna partire da una definizione preliminare di questi elementi che entrano in gioco. Ecco, che cosa è il turismo di massa? Dove va, perché va in un luogo? Io credo che il viaggio sia sempre il desiderio dell’io di cercare un altrove cioè di trasferire la propria individualità, la propria memoria, la propria cultura in un luogo altro, in una civiltà diversa dalla propria; il giorno in cui deciderò di andare in Giappone sarà per conoscere paesaggi, architetture, storie e anche cibi, linguaggi, costumi diversi da quelli che appartengono alla mia tradizione; ecco perché credo che difendere l’identità dei luoghi sia non solo un dovere culturale ma anche un’intelligente soluzione per alimentare il turismo, cioè se noi abbandonassimo la difesa della nostra cultura mediterranea, italiana, napoletana in particolare per omologare Napoli a quelli che sono i luoghi comuni del turismo di massa internazionale, commetteremmo un errore direi dal punto di vista anche della funzionalità dell’appeal turistico prima ancora che un inaccettabile, dal mio punto di vista, errore culturale.
Ecco noi sentiamo ogni giorno la televisione che ci parla di questa globalizzazione, un neologismo che a me non piace, ci parla di questo mercato unico nel mondo nel quale ormai siamo immersi, io preferisco termini come cosmopolitismo a globalizzazione, cioè preferisco pensare che la civiltà del futuro sarà una civiltà multietnica caratterizzata dalla compresenza di molti linguaggi e di molte culture piuttosto che omologata in un diciamo così, pensiero unico, in un modello unico; questo lo dico anche alla luce di letture come quella di Umberto Eco “Alla ricerca della lingua perfetta”, dove giustamente Eco ricordando i vari tentativi di inventare esperanti cioè linguaggi perfetti che fossero comprensibili a tutta l’umanità sulla base di un calcolo matematico delle parole, lui conclude dicendo “il futuro sarà sempre più poliglotta” cioè ognuno di noi parlerà magari dieci lingue, i ragazzi di oggi quasi tutti, direi per una evoluzione biologica, parlano tutti inglese oltre che varie altre lingue, quindi noi abbiamo in futuro in cui la presenza delle molte culture sarà un dato positivo e non negativo.
In questo quadro che cosa è il Mediterraneo? Qual è l’essenza di questa cultura mediterranea che noi dobbiamo difendere? Ecco qui mi viene alla mente la nota dichiarazione di Fèrnand Braudel che forse è stato il maggior studioso della civiltà mediterranea, lui dice “Il Mediterraneo non è un mare ma una pluralità di mari, non è una civiltà ma una pluralità di civiltà intasate una nell’altra”. Ecco Braudel vuole dire che appunto questo “mare nostrum” così lo chiamavano i romani o “media terrarum” come dissero nel Medioevo i nostri antenati, cioè questa parte di acqua che sta in mezzo alle terre è il bacino che è stato teatro delle più antiche civiltà del mondo, da quella egiziana a quella mesopotamica che si affacciava attraverso le coste dell’Anatolia, della Turchia sul Mediterraneo a quella delle grandi civiltà del mare come quella fenicia, greca, romana e via discorrendo; ecco quindi questo bacino del Mediterraneo è denso di memorie antichissime ma anche di conflitti, di scontri tra queste civiltà non solo di intrecci, anche di conflitto possiamo dire tra memoria antichissima e civiltà ultra moderna, basta andare a Venezia per passare dopo aver visto San Marco, le Procuratio Vecchie, andare a Marghera per vedere poi le petroliere e l’ultra moderno; coesistono anche nel nostro porto momenti di memoria antichissima e momenti di civiltà moderna e noi dobbiamo tentare di costruire un progresso che non sia azzeramento del passato, cioè di rendere compatibile il necessario sviluppo e l’evoluzione della civiltà anche tecnica con la difesa anche di quel patrimonio storico che rappresenta la nostra più importante eredità del passato e che va difesa.
Da questo punto di vista vengo su Napoli, sulla città che poi ospita questo convegno e che può essere per ognuno di noi l’exemplum il caso su cui riflettere su questi principi. Oggi noi abbiamo un problema che rimbalza dalle cronache della televisione e dei giornali che è questa criminalità, io sono molto preoccupato da quello che sta accadendo in questi giorni: questa sorta di dichiarazione di guerra del mondo criminale allo Stato alla parte civile della città, ma io ritengo che il turismo possa essere un antidoto contro la criminalità nel senso che delle due l’una: o la microcriminalità continuerà ad esistere in questo corpo malato e il turismo non potrà attecchire lì dove c’è microcriminalità, oppure può divenire fattore di risanamento delle zone che oggi sono in parte anche centro di microcriminalità; penso per esempio a quello che è accaduto in città come Lisbona, come Barcellona che grazie ad una politica e quindi ad un progetto non ad una casualità spontanea, hanno visto risanare in pochi anni il Barrio Alto di Lisbona o il Barrio gotico di Barcellona, grazie ad una serie di attività turistiche, cioè di incentivi al commercio, all’apertura di negozi, di bar e questo fenomeno è già sotto i nostri occhi, ovvero la parte del centro antico di Napoli che già risanata, quella che va da Piazza del Gesù a Piazza San Domenico Maggiore, aver eliminato da Piazza San Domenico Maggiore il parcheggio, aver messo il bar ha determinato nei fatto un afflusso di ragazzi che vanno la sera in piazza, come è avvenuto anche a Piazza Bellini e dunque di per sé questo tipo di organizzazione determina l’effetto benefico anche di risanamento. Un progetto del genere può essere esteso anche ai Quartieri Spagnoli che hanno caratteristiche simili dal punto di vista del tracciato urbano con il Barrio Alto di Lisbona con il loro impianto “ad castrum” fatto di un reticolo geometrico molto chiaro e che come il Barrio Alto occupano una zona centralissima a ridosso di via Roma, di Piazza Plebiscito di tutto il centro monumentale che potrebbe in pochissimi anni divenire luogo di incontri soprattutto di giovani; io credo che siano quelli che possano, anche utilizzando luoghi che sono i primi poli di risanamento, penso al teatro Nuovo, alla Galleria Toledo , alla capacità che hanno questi luoghi di irradiare effetti benefici anche sui Quartieri.
Concludo con questa considerazione: io credo che il turismo di massa vada considerato non come una sorta di turismo alla Disneyland, cioè qualcosa da organizzare nei termini, per me terrificanti degli hamburger, dei Mac Donalds, delle manifestazioni simili a quelle che ha il “puer”, il bambino quando va a Disneyland che consuma ciò che il luogo offre con una sorta di stupidità collettiva che è giustificata e affascinante in un’età infantile e diventa abbastanza preoccupante in un’età adulta.
Io credo che dobbiamo cominciare a capire che esiste un turismo colto, un turismo che rispetta e anzi ama le tradizioni locali, un turismo che non va in Giappone per mangiare gli spaghetti e non viene a Napoli per mangiare hamburger, cioè un turismo che fa apprezzare le culture locali e quindi questa fenomenologia può produrre il doppio effetto di aumentare l’orgoglio di chi abita i luoghi visitati per la memoria, la storia la tradizione l’identità del proprio passato; il fenomeno di “Adotta un monumento” introdotto da “Napoli ‘99” dei bambini che ti portano a vedere il Monastero di Santa Chiara e ti raccontano la storia di Santa Chiara, è toccante ed intelligente anche perché quel bambino capisce l’importanza del passato ma, è al tempo stesso, benefico sul turismo perché verranno sempre più in un futuro, mi auguro, a visitare i luoghi della nostra memoria e non a distruggerli con questa livella, con questa omologazione che è quello che ho chiamato con questo piccolo articolo di Repubblica “L’effetto Disneyland”, cioè l’effetto di tutto il mondo diventa uguale, un grande turismo di massa.
Interviene l’Arch.Mario Mangone
Ringrazio il Prof. Gravagnuolo e mi scuso se su questo ultimo punto, dico qualche cosa, subito dopo darò la parola all’Arch. Boeri, perché ritengo fondamentale definire i punti base, su cui far maturare la nostra discussione Si parla spesso della questione “disneyland”, spesso collegato al tema più generale dell’ omologazione dei consumi e di un pubblico planetario. Bene io credo che su questa questione dovremmo avviare una attenta riflessione, dicendo innanzitutto che il processo di “disneylizzazione” planetaria del consumo ha una sua dignità storica e non può essere considerata come “esperienza per bambini”, essa ha una sua dignità ed articolazione simbolica molto complessa. Disneyland ha una tradizione organizzativa e progettuale che attinge dalla nascita della città americana ed ancor prima a quella delle grandi esposizioni universali dell’America di fine ‘800 e mi riferisco in particolar modo alla Fiera Colombiana di Chicago del 1893. In essa il pubblico ha assunto una sua dimensione ed un ruolo attraverso cui la storia viene percepita come simulazione, il consumo stesso è legato alla simulazione della storia, tant’è vero che Disneyland non è una città per bambini ma per adulti. Non a caso questo modello di sviluppo, per la sua profondità, per la sua complessità, per la sua organizzazione si sta diffondendo a scala planetaria. Se è una formula che sta avendo successo, per la sua diffusione in Europa, in Giappone ed in altre parti del mondo, vuol dire che in essa esistono specifici elementi strutturali che hanno una loro efficacia e dignità interna, sul piano organizzativo, culturale e progettuale. Pertanto questo fenomeno non possiamo elitariamente negarlo o averne timore per il semplice fatto che è un “prodotto americano” globalizzante, bisogna cominciare innanzitutto a conoscerlo, cercando di definirne i processi interni rispetto ai quali poi tentare di costruire un’alternativa legata a quanto diceva il Prof. Gravagnuolo, su come noi organizziamo, strutturiamo una strategia in cui l’esperienza della storia, il viaggio, possa essere una maturazione differente da quella americana, non dico migliore, sottolineo differente, perché fa riferimento alla nostra dimensione, in cui la storia reale europea e mediterranea ha avuto il suo peso, con le sue rotture, i suoi processi, i suoi conflitti, le sue catastrofi.
Ecco ci tenevo a sottolineare questo problema che attiene alla nostra capacità di capire la grande industria culturale moderna di cui gli americani ed emblematicamente l’esperienza disneyniana ne è la più diffusa nel mondo. A quanto detto mi collego adesso all’esperienza dell’Arch. Boeri per il semplice fatto che è intervenuto sulle strutture portuali a Genova, a Napoli ed in tante altre città e quindi alla messa in pratica di alcuni suoi progetti, quindi ha la possibilità per la sua esperienza di darci un contributo sulla questione in esame, soprattutto su come nel progetto il rapporto tra storia ed innovazione possa essere trasferito e filtrato adeguatamente dall’architettura.
Intervento dell’Arch. Stefano Boeri
Alcune considerazioni prima sulle particolarità che forse in modo un po’ generico chiamiamo città del Mediterraneo europeo affacciate sul mare, io credo che effettivamente ci siano delle caratteristiche che uniscono città come Marsiglia, Barcellona, Genova, Palermo, Napoli, Salonicco, Il Pireo, caratteristiche che uniscono e a un tempo distinguono queste città dalle città del Nord – Europa o da molte città di altri continenti che magari hanno degli elementi assai simili dal punto di vista dello sviluppo delle aree portuali o dei centri storici.
Io credo che il fattore principale che caratterizza le città che ho appena citato, è il fatto che sono aree urbane dove sopravvive un’incredibile densità di contrasti, dove ancora oggi è possibile esperire, vivere una incredibile compressione di paesaggi differenti ovvero pezzi di territorio dove ancora oggi camminando in pochi metri, percorriamo paesaggi, mondi e anche immaginari assolutamente differenti l’uno dall’altro; pensate a cosa è l’esperienza a Napoli di percorrere il centro storico, uscendo dai Quartieri Spagnoli dirigendosi verso il mare o a Genova, attraversare dalla Genova Cinquecentesca di Corso Garibaldi scendere verso il porto, in poche centinaia di metri noi attraversiamo e superiamo con delle soglie che sono nettissime, pezzi di mondo urbano che hanno una loro assoluta caratterizzazione e tutto ciò che avviene dentro quel mondo, tutto il principio di variazione che avviene dentro quel mondo, è qualcosa che avviene esclusivamente all’interno di quel mondo, cioè la straordinaria unicità di queste città è il fatto di ospitare nelle loro parti centrali dei paesaggi, delle parti che non solo sono assolutamente distinte l’una dall’altra, dove persistono delle soglie, dei confini molto precisi, che hanno queste parti al loro interno dei principi di variazione che non sono condivisi con le altre parti. Per dire in altro modo, tutto ciò che avviene all’interno dei Quartieri Spagnoli dal punto di vista dei tipi edilizi, dal punto di vista degli spazi aperti, dal punto di vista dei modi di vita, è assolutamente caratteristico e tipico del confine di quest’area è difficile che lo si ritrovi magari a soli cinque metri di distanza da questo confine. Ciò che avviene a Genova in Via Prè o in altre zone del centro storico, anche a Genova tutto ciò che avviene nel centro storico è pressoché esclusivo,infatti, se si entra in una parte di città che ha una struttura differente, questo principio di variazione cambia. C’è la persistenza di una matrice storica della città che ha saputo fino ad oggi mantenersi e che, in qualche modo, ha saputo creare questa situazione unica di un territorio urbano ancora vitale dove, pezzi diversi di città convivono e coabitano l’uno accanto all’altro e spesso compressi, mantenendo però un’elevata tensione reciproca; tutti pezzi che non hanno avuto negli ultimi anni processi di diluizione, osmosi.
Questa io credo che sia una grande risorsa perché se pensiamo ad altre città europee, per esempio altre città non costiere, il caso di Firenze, caso emblematico e per certi versi anche Venezia, dove invece il turismo di massa ha in qualche modo condizionato e fortemente modificato i caratteri dello spazio urbano nei modi d’uso in primo luogo e in parte anche nei disegni degli spazi aperti o dei piani terra,diciamo che forse l’aspetto più evidente della presenza di un turismo di massa per così dire non governato, è proprio il fatto che questa differenza per parti così chiara, si è andata perdendo. Forse nulla come il turismo di massa e come le sue strutture è un elemento che porta a fenomeni di dissipazione, di dissolvenza e allentamento delle tensioni; il turismo di massa per sua natura crea spazi generici, spazi omologati ma spazi non destinati e riferiti a delle caratteristiche precise, ha una straordinaria capacità di attrattiva e come si diceva allenta le tensioni tra le parti di città.
Allora io credo che nella strategia politica che le amministrazioni locali devono mettere in campo quando si tratta di pensare al futuro di città come Napoli o come Genova, bisogna attentamente considerare questi aspetti e il fatto che città come queste che hanno mantenuto, anche pagando un prezzo caro dal punto di vista della qualità dell’ambiente fisico, della criminalità perché no, ma hanno mantenuto, nella loro parte centrale una condizione urbana estremamente vitale, contrassegnata da questa compressione di paesaggi differenti che coabitano tra di loro senza nemmeno scambiare caratteristiche, situazioni, presenze, ecco questa situazione va prima di tutto capita e attentamente studiata perché distingue città come Napoli, Genova, Palermo da Firenze o Venezia o da altre città che sono state fortemente condizionate dal turismo di massa in qualche modo diffuso e non orientato.
Cosa fare? Avendo io avuto qualche esperienza sulle aree portuali devo dire che per esempio all’interno della problematica della loro progettazione, e voi sapete che in queste città i porti sono cresciuti a strettissimo contatto con i centri storici, non solo, ma ancora oggi queste sono realtà che in una situazione di recente sviluppo delle aree portuali come quella che stiamo vivendo, diversamente dalle città del Nord – Europa (Amburgo, Rotterdam), l’espansione delle aree portuali non può fare i conti con grandi disponibilità di spazio, ci si trova infatti, in una situazione paradossale perché dopo anni in cui si è pensato che i porti abbandonassero aree a favore della città, i porti oggi tendono a chiedere aree, tendono a potenziare le loro strutture, in molte di queste città non esistono aree disponibili; non può accadere quello che è successo a Rotterdam dove un intero, porto commerciale si è spostato a diversi chilometri dal centro storico della città occupando un’immensa area e potendo quindi sviluppare lì pienamente tutti i suoi piazzali per i containers etc. e anche a Napoli questo non può succedere, c’è un problema di continuità, c’è un problema di scarsità di spazio, il porto per espandersi deve cercare degli spazi movendosi a contatto con la città.
Allora in questa situazione io credo che sia molto importante pensare ad un modello di sviluppo della città verso il mare e del porto che sia un modello che non penalizzi in nessun modo le reciproche differenze e le reciproche identità di questi due paesaggi; i porti sono dei paesaggi particolari, plurali perché contengono molte cose diverse ma, al tempo stesso, le loro caratteristiche li rendono assolutamente distinti dalla città. Io personalmente non ho mai creduto all’integrazione tra porto e città, credo che sia una parola d’ordine ipocrita perché un porto ha una sua logica che si esplica nei modi di cambiare, nei modi di attraversamento, una sua dinamica specifica sia che si parli di porti turistici sia che si parli di porti commerciali o produttivi, c’è una logica nella vita di un porto che è legata al flusso di persone e merci, è legata ad un certo utilizzo degli spazi a terra, a certi ritmi di cambiamento che rende il porto un pezzo di città simili alla città storica come avveniva per i porti in epoca medievale o in epoca cinquecentesca o come la periferia pubblica degli anni Sessanta, un pezzo di costruzione materiale dunque che l’uomo ha determinato nel corso dello sviluppo della storia assolutamente peculiare. Allora io credo che la sfida che oggi Napoli e Genova hanno è quella di riuscire a potenziare lo sviluppo delle aree portuale garantendo al tempo stesso l’espandersi delle aree urbane verso il mare; se pensate a quello che è successo a Barcellona negli ultimi anni o a Genova con l’Expo ci rendiamo conto che la strada percorsa fin qui è stata una strada diversa, cioè sempre negli ultimi casi conosciuti, laddove la città è tornata ad affacciarsi sulle banchine il porto è sparito. Il caso dell’Expo di Genova è molto chiaro: sono arrivati i cinema multisale ed il porto è sparito, non vi è più nulla che ricordi la presenza portuale se non qualche piccolo totem mummificato rimasuglio lasciato lì a memoria di un’antica storia. Mentre il caso di Barcellona è quello di questo grande progetto per il “Mare Magnum” un grande centro commerciale polivalente costruito proprio nella parte principale della Ramblas del centro storico, davanti alla banchina, ha significato lo spostamento e l’annullamento delle attività portuali.
Queste due esperienze, per quanto in un certo senso esperienze che hanno avuto un notevole successo di pubblico, sono da guardare con un occhio molto critico perché sia , io credo persa, in quei due casi, una delle caratteristiche principali delle città delle Mediterraneo europeo, che è quella di poter percepire e vivere la coabitazione di paesaggi diversi avendo questa straordinaria esperienza ovvero il passaggio tra questi due paesaggi diversi ed io credo, che dobbiamo cercare di conservare questa esperienza in virtù della sua unicità e che dà senso a molte delle nostre città senza però per forza di cose penalizzare né le attività portuali né le attività turistiche. Napoli deve oggi raccogliere la sfida di tornare sul mare e riavvicinarsi ad un porto che non solo lavora ma che anzi è in grado di intensificare la propria attività produttiva. Dunque cosa vuol dire questo? Vuol dire probabilmente pensare ad una strategia di progetti urbani che sia capace di lavorare per innesti e non per osmosi, ad una strategia che sia capace di lavorare per differenze e separazioni; spesso nei porti siti all’interno delle città è necessario chiarire i confini di evitare che la città e il porto sia diano le spalle lasciando degli spazi sotto utilizzati o abbandonati, si vedano a Napoli via Marina o via Acton, togliere spazi residuali vuol dire riavvicinare i bordi di queste due entità senza però illudersi che entrambe possano perdere un confine, confine che può essere rimodellato, spostato a favore dell’uno o dell’altro, si possono pensare come dicevo innesti reciproci purché sia chiaro che questa separatezza debba mantenersi.
Interviene l’Arch. Mangone
Ringrazio l’Arch. Boeri che ci ha dato modo di capire un po’ il pensiero che è alle spalle di tutti gli interventi che stanno avvenendo all’interno, all’esterno o sulla linea di confine dell’area portuale, credo sia molto significativa quest’ultima parte del suo intervento perché ci da la possibilità di fare i conti un’idea di progetto e di valutare successivamente l’impegno dell’amministrazione comunale nell’area portuale (vista l’esperienza comune che abbiamo con il Prof. Gravagnuolo all’interno della Commissione Edilizia del Comune di Napoli ), dove abbiamo la difficoltà di capire la differenza, in quanto non esiste una regia tecnico – amministrativa o progettuale, capace di governare la differenza, gli elementi della differenza, essi sono autonomi non c’è una strategia capace di rimettere in circolo questa relazione e quindi questo richiede sicuramente una strategia tecnico - amministrativa più avanzata, dove le cose che diceva l’Arch. Boeri possano far andare avanti sia la discussione, sia il tema del progetto sulle aree portuali. Ora la parola alla sociologia a Luigi Caramiello.
Interviene il Dott. Luigi Caramiello
Naturalmente io intervenendo dopo gli approfonditi contributi di Mangone, di Stefano Boeri e di Benedetto Gravagnuolo ho una difficoltà maggiore perché i temi diciamo anche più interessanti e significativi di questa discussione sono stati già posti nei termini corretti; quindi vorrei provare a fornire in contributo qualche spunto, spero originale, che possa anche essere utile a costruire una connessione tra le diverse sensibilità che si sono espresse già nelle discussione in modo molto proficuo. Forse non è inopportuno riprendere per un attimo almeno questa idea della funzione storica e del significato diacronico, in senso epocale, che il Mediterraneo ha svolto nella crescita dei processi di evoluzione e di civilizzazione su scala planetaria; è un luogo comune anche se volete l’idea, che il bacino del Mediterraneo, abbia costituito un vero e proprio crogiuolo, una fucina culturale che ha prodotto i risultati storici sul piano dell’evoluzione tecnico – scientifico, dell’ evoluzione immaginaria, simbolica, tecnologica, sociale, più elevati che si siano verificati nell’intero corso della storia umana in relazione ad altre aree geografiche.
Questo è avvenuto perché il Mediterraneo sperimenta, in termini strutturali, una serie di felici condizioni, “Media Terranum” diceva Benedetto molto acutamente e “media” è la stessa radice che nell’idioma latino e poi nell’inglese moderno, è quella che dà significato e senso all’espressione “Mass Medium”, infatti, il Mediterraneo è esattamente un “medium”; e perché il Mediterraneo è un “medium” e non possiamo ritenere la stessa cosa per esempio dell’Oceano Atlantico? Perché un medium è uno strumento predisposto al trasporto di informazione, ma il trasporto di informazione altro non è che una delle possibili manifestazioni della dinamica del trasporto, come quella che avviene nei porti quando si trasportano merci da un posto all’altro. La comunicazione è il trasporto di informazioni che da questo punto di vista ha una caratteristica diversa rispetto alle altre forme di trasporto perché è un trasporto senza perdita, senza trasferimento; se io trasferisco una bottiglia da una città all’altra, dopo non l’avrò più, quando l’avrò portata nel luogo d’arrivo del viaggio, mentre se trasporto informazioni le porto e ne rimango in possesso, quindi, è un trasporto che per alcuni versi è simile a qualunque altra forma di trasporto ma per altri versi ha una significativa differenza.
Il punto è che l’Oceano Atlantico non poteva essere un medium perché non era raggiungibile nessuna delle terre che lo dividevano per molti, molti secoli, mentre il Mediterraneo ha funzionato come medium perché consentiva, aveva le dimensioni tali che permetteva l’approdo di corpi da un luogo all’altro. Ora questo ha un significato particolare perché nel bacino del Mediterraneo si è avuto quello che succede quando si costituisce un’equipe scientifica, dove se metti cinque architetti urbanisti o artisti ingegneri, li metti a lavorare per un anno o per tre o per dieci, la stessa cosa avviene se costituisci un’equipe multidisciplinare, entro un certo lasso di tempo si determina una crescita esponenziale del sapere, naturalmente ognuno riesce a trasmettere le informazioni che accumula con una velocità , con una capacità di sinergia che porta ai quei risultati tipo la Scuola di Vienna o il Bauhaus o la Scuola di Santa Fè. Ora se immaginiamo su una scala diacronica più lenta i tempi di evoluzione sono diversi, il bacino del Mediterraneo ha prodotto esattamente questo risultato: un luogo dove diverse soggettività storico–sociali, creatrici di cultura, di sapere, di tecnologia erano perennemente in scambio e con una velocità che non avveniva in nessun luogo del mondo; quindi se uno scopriva i numeri e un altro scopriva la prospettiva e un’altro la ruota, un’altro l’allevamento e l’altro l’agricoltura, queste conoscenze venivano socializzate in un tempo estremamente breve e il motivo per il quale le zone che non hanno sperimentato la dinamica dello scambio e della commistione, vi faccio due esempi: il Centro Africa che i Romani definivano nelle loro cartine come la zona dove c’erano i leoni non era in sinergia e scambio con altri luoghi, con altre fucine evolutive e di culture, oppure la Mesoamerica, luoghi dove la civilizzazione non scattava, il “take off” non si produceva, nella Mesoamerica per esempio, dove pure si era avuto, voglio dire un notevole accelerarsi dei processi di civilizzazione tecnologica, c’era la coltura del mais, c’era l’idraulica a livelli elevatissimi, ma non c’era la ruota e c’era ancora il cannibalismo perché non era stato scoperto l’allevamento dei bovini, cioè una civiltà da sola può anche raggiungere risultati elevati ma può non raggiungere alcuni traguardi, alcune tappe in determinati punti specifici. Civiltà che interagiscono determinano una crescita esponenziale della conoscenza, ora il bacino del Mediterraneo è stato esattamente questo.
Ma questo ha dei significati importanti, perché questi percorsi non avvengono soltanto sul terreno della tecnologia o simbolici, avvengono contemporaneamente sul terreno simbolico e tecnologico, anche quello che ha sperimentato la nascita economica della moneta, certo perché voi dovete immaginare che un commerciante fenicio che porta trenta pecore in una città – Stato dell’antica Grecia è tornato sempre indietro con quaranta otri di vino, il giorno in cui gli danno sette pezzi di ottone o di bronzo o è un pazzo oppure ha scoperto una logica simbolica diversa, cioè quella dell’astrazione e non è un caso che la moneta nasce in contemporanea con la filosofia, cioè con il codificarsi rigido di un modello astratto di simbolizzazione; moderno, estremamente moderno ma estremamente moderno in entrambi i casi.
Diceva Joseph Conrad nell’attacco meraviglioso “l’Incipit di Victory”, diceva che il diamante e il carbone sono entrambi composti di carbonio ma vi è una meravigliosa concentrazione nei diamanti; immaginate se dovessi portare una miniera di carbone in giro per il mondo su una nave in viaggio, mentre un diamante posso metterlo nella tasca di un panciotto; ecco, i simboli hanno questa caratteristica, che possono evocare, sintetizzare, riassumere la complessità; ma questo può farci correre il rischio serio di correre delle leggerezze, oggi per esempio che siamo nell’epoca della globalizzazione che per certi versi, Benedetto legge con un grado di complessità e con una problematicità ( e secondo me fa bene), c’è anche chi invece si lascia sedurre in maniera forse fin troppo accelerata o affascinata, si lascia coinvolgere senza senso critico dal significato di certe espressioni. La comunicazione è trasporto di informazioni e per secoli il trasporto di informazioni richiede il trasporto di corpi, noi non facciamo spesso i conti con questa affermazione, ma per secoli, per millenni, la musica significava il musicista e soltanto con la tecnica di registrazione che la musica si può svincolare dal corpo del suo produttore e per secoli la comunicazione di sapere, di conoscenza, persino in un medium accessibile e dinamico come il Mediterraneo, significava il trasferimento fisico di persone.
Questo ora è solo parzialmente ancora vero sebbene in parte cospicua, noi oggi sappiamo che ci sono da trasportare atomi e byte, per soddisfare il nostro immaginario possiamo usare i mezzi televisivi e telematici ma sulla nostra tavola dovremo metterci degli atomi ben congegnati; sarà così per molto tempo sin quando non riusciremo a poter rendere virtuale anche questa gamma di bisogni così vilmente meccanici che continuiamo ad esprimere.
Quindi lo scambio: relazione, comunicazione, commistione, conflitti dice Benedetto ed ha ragione ma, il conflitto è ancora una forma di relazione; conflitto e cooperazione sono due facce diverse e spesso non disgiungibili, forse non è possibile una cooperazione che non comprende elementi di conflitto e non è possibile un conflitto che paradossalmente non contempli al suo interno una dinamica di cooperazione.
Ora dobbiamo capire come tutto quello che sta accadendo in termini di velocizzazione come può funzionare su un medium antico come il Mediterraneo, la comunicazione potrà svincolarsi completamente dal trasporto di corpi? Noi stiamo discutendo su come il Mediterraneo può funzionare in relazione alla dimensione turistica, un tema che io suggerisco subito di introdurre in una dimensione sistemica, io non riuscirei credo oggi più a discutere seriamente di turismo se non in rapporto a tutta la complessità di dinamiche di organizzazione e dell’ economia di processi produttivi e simbolici, credo che non sia pensabile riuscire a svincolare questo tema da questa dinamica. Il nostro Paese subisce un impatto forte derivante dalle dinamiche di globalizzazione che non è soltanto quella della possibile massificazione e della possibile disneylandizzazione turistica derivante dall’arrivo di giapponesi che vengono qui ad allocare il loro surplus, perché i viaggiatori si dividono in due categorie, quelli di cui dicevo poc’anzi e quelli che vengono a cercarlo, che non sono esattamente turisti, in questo paese ogni anno arrivano migliaia di persone che non viaggiano, sono esattamente emigranti, masse di diseredati che utilizzano ancora il Mediterraneo come lo si utilizzava nell’antichità per il trasporto di persone e culture per venire nel bacino dell’Europa Occidentale a costruire la possibilità di realizzare le loro opportunità di vita. Pertanto non possiamo affrontare questo tema soltanto con gli strumenti del vecchio esotismo illuminista, tutto l’Occidente ha viaggiato, gli stessi viaggiatori americani già nel Settecento venivano in Italia. Noi abbiamo viaggiato ad esempio verso il Madagascar alla ricerca dell’armonia perduta, pensando di poter trovare il rimedio a tutti i guasti della società tecnologica, questo è l’esotismo; in realtà noi sappiamo che non è soltanto folclore e bellezza estetica ma c’è anche degrado, malattia, sofferenza in quei luoghi dell’alterità radicale dove noi abbiamo cercato i segreti risanatori al disagio provocato dalla nostra civiltà. Questi sono i termini della questione, ma questa identità della quale siamo in cerca è veramente un’identità che possiamo sottolineare a partire dalla sua dimensione radicale di senso oppure è essa stessa il risultato di processi di storicizzazione, di commistione, di conflitti? Se pensiamo alla musica tipica di alcune nazioni ad esempio ai Balcani dove suonano lo “gipsy” o alla Penisola Iberica con il “flamenco” e nel bacino del Mediterraneo al centro, nella Penisola Italiana la canzone napoletana e il melodramma, se li andiamo a destrutturate non possiamo che riconoscere come il risultato della commistione fra le architetture acustiche del Nord-Africa e Medio Oriente è lo sciamare della ballata provenzale che proveniva dal Centro Europa, voglio dire che soprattutto noi, siamo l’espressione della commistione tra differenze e questa identità è data una volta per tutte, oppure se è vero che è il risultato di un processo è essa stessa ancora attraversata da questa processualità ? Questa identità non è ancora oggi sottoposta ai processi di contaminazione? E tutto questo dobbiamo vederlo come una perdita della memoria, del senso della verità ontologica del nostro essere oppure come il significato reale della vita, come una proiezione su scala culturale di ciò che avviene per esempio sul terreno biologico con quella roba che Darwin chiamava evoluzione? Allora se tutto questo è pluralità da sempre, a questo punto io anche la globalizzazione tendo a leggerla come un passaggio di carattere fenomenologico, cioè la percezione della globalizzazione, perché l’ecosistema non è un’invenzione di Von Foster o di Murray Buckin degli anni Cinquanta o degli anni Sessanta quando l’ecologia ha avuto un po’ di successo perché a sinistra era vista con un po’ di sospetto, perché l’ecologia era una roba per borghesi snob un po’ debosciati, perché l’ambiente era un ambiente di lavoro, il rapporto tra il proletario ed il capitalista, la fabbrica, ma l’ecosistema , la natura erano pressoché sconosciuti. In seguito siamo riusciti ad interiorizzare queste categorie per fortuna nella nostra visione ed abbiamo fatto qualche passo avanti, ma l’ecosistema si diceva non è un’invenzione, c’era già! Così che la globalizzazione è la presa di coscienza sul terreno dello scambio di informazione, simbolico, scambio di merci, tecnologico, comunicazionale di ciò che l’ecosistema esprimeva già. Siamo al mondo circa sei miliardi di individui e non produrremo il nostro Illuminismo se non introduciamo categorie serie di governo dei processi; d’altra parte il sistema anche dal punto di vista sociale è in omeostasi, ovvero è stato sempre in equilibrio, dati riguardanti la crescita demografica che mette in crisi l’economia di paesi per noi lontanissimi possono non interessarci per niente perché per secoli si è auto-equilibrata, ma noi abbiamo inventato l’etica ed è in quel momento che sorge il problema del significato planetario della globalizzazione e ciò è giusto perché non possiamo pensare di svilupparci ed andare avanti mentre altrove la mortalità infantile si attesta ancora al 10%, ma non perché il sistema non è in equilibrio ma è il nostro sistema di valori a non essere in equilibrio di fronte a questa situazione, dunque il problema non è di carattere tecnico ma di carattere culturale.
Allora quale compito può svolgere oggi il Mediterraneo in questo quadro così articolato sebbene sommariamente decritto? E’ quello di permettere il superamento del gap che c’è tra la virtualizzazione e i fenomeni legati alla realtà concreta dei territori sociali; francamente io sono agghiacciato come dice Alberto Magnaghi che forse potrà anche estremizzare per qualche aspetto le sue espressioni, ma sono agghiacciato dall’idea di un mondo all’insegna del cottage telematico in cui c’è la precisione estetica dei fenomeni comunicativi però si pone comunque come il terminale collocato in una periferia degradata, violenta, criminale perché lo scarto tra le risorse e opportunità è fortemente sbilanciato, c’è anche questo dato banalmente sociologico, ma è un dato indiscutibile perché funziona in tutti i territori sociali preda di devianza; dunque non possiamo pensare ad una virtualizzazione che ci offre una cultura reticolare dove la comunicazione è perfetta, dove gli individui sono in contatto tra di loro senza tentare di capire come usare la virtualizzazione come fattore di riequilibro territoriale, per esempio puntando a una dimensione metropolitana che non sia più la dimensione dell’addensamento ma sia la dimensione della policentricità, perché l’addensamento era anche l’esito di un’esigenza di tipo materiale in quanto la metropoli era il luogo della velocizzazione, della scoperta, dell’industria; oggi possiamo attraverso la cultura della rete paradossalmente, rilanciare una cultura a-centrica, ri-periferizzare lo sviluppo senza perdere la centralità culturale, cioè utilizziamo la dimensione reticolare come possibile sostitutivo simbolico di ciò che era invece fenomeno necessitante dei processi di addensamento fisico, in tal modo non si smarrisce la possibilità di produrre ancora un progetto di sinergia complessiva dell’Italia Meridionale che guarda all’Europa e che guarda all’Africa, allora significa che la possibilità di immaginare questo nostro Mediterraneo come un triangolo che per me è composto da Gioia Tauro, il Ponte di Messina da realizzare rapidamente e forse un insediamento urbano da articolare nel Basento, come canale di comunicazione con Brindisi e con l’economia dei Balcani, che vede sempre di più nell’Italia Meridionale un nostro riferimento e allora un ponte a due fornici uno che guarda ai Balcani uno che guarda al Magreb significa che l’Italia finisce a Trapani se si completasse l’autostrada, significa che siamo a due passi dall’Africa e ci candidiamo come è giusto, come il terminale di una sinergia che non sarà solo simbolica perché altrimenti le coste saranno invase in maniera sempre più irrazionale e noi dovremo essere lo snodo per quei processi di trasferimento anche fisico con il quale facciamo i conti, persistendo questa situazione che fine fanno la memoria, la cultura, la storia? Quella che hanno sempre fatto: un po’ si un po’ no, è dentro di noi come immaginario, come antropologia, come trasformazione, come contestualizzazione, diceva un filosofo che con la storia possiamo avere un rapporto celebrativo, monumentale o critico, contemplazione delle vestigia del passato, possiamo pure sistemarle in un museo, di stare a chiedere al passato tutto quello che c’è da fare nel futuro ma sarebbe chiedergli di assolvere ad un compito improbo, sarebbe sottrarci alla nostra possibilità di costruire il futuro, di reinventare la vita e quindi fare in modo, come diceva il filosofo che i morti non seppelliscano i vivi.
Segue intervento scritto pervenuto alla segreteria della Conferenza
Arch. Bruno FIORENTINO - Dirigente Settore Tutela Beni Paesistico Ambientali della Regione Campania.
Abitare il Mediterraneo, e ben dentro il Mediterraneo, come l’Italia e tutte le sponde e isole e promontori e lidi assolati, e fiumi che vi sfociano, vuoI dire darsi conto degli innumerevoli e ripetuti, riproducibili rapporti tra popolazioni di sopra e di sotto, e dall’interno all’esterno, in maniera che ogni gruppo può dirsi appartenente, oltre che al proprio paese, o nazione ancorché fittiziamente separata da confini, anche a una sola unica millenaria civiltà.
Una civiltà che comprende e mescola culture primarie e derivate, l’una dentro l’altra, con avanzate e ritorni, con repliche e copie e riproduzioni di gusti e di preferenze, in costante rapporti d’affari e di commerci e scambi d’informazioni e di usi e costumi e religioni, talché ogni conflitto contingente, e sempre provvisorio e componibile, appare quasi come guerra civile e fratricida.
In tale quadro si inscrive, oggi, il paradosso palestinese in parte di quello che fu teatro di scontri crociati, per cui accade che squadre di archeologhi studiosi di castella e murazioni, di bassorilievi e papiri, di vestigia nobili o plebee, s’imbattano in scaramucce e scontri armati dei pronipoti e discendenti di quelle stesse storiche tribù e storici villaggi già affidati alle storie sui nobili scaffali di famose biblioteche e musei.
Si può dire che la storia, inscritta nel grande patrimonio dei beni culturali orientali/occidentali, stia ancora svolgendosi sotto l’occhio curioso dell’archeologo. Si può dire, allora, che quella storia dell’impasto millenario di popoli mediterranei, non sia finita, non sia scritta del tutto, ma continua qui e ora in mezzo a noi.
Si può dire ancora che stiamo facendo storia in tempo reale e si può dire che facciamo turismo sulle nostre stesse contraddizioni culturali, operando una frattura tra il significato e il gesto.
Goethe affidò la sua ricerca sull’Oriente a quello che Ludovica Koch ha chiamato “il progetto di amorosa devastazione della memoria”, che si rivela come un operazione di travestimento senza risolversi nell’identificazione cercata. Era già in difficoltà il viaggiatore colto del secolo scorso, per non ammettere oggi che il consumismo turistico è un mercato delle illusioni fatto di immagini stereotipate. Una confusa collezione di immagini e di ricordi di viaggio che possono benissimo essere scambiati tra i clienti dei tour operator. Un turista che non trova il tempo di sostare e di riflettere e che rispecchia la frattura drammatica, o il legame incrinato tra gli abitanti del Mediterraneo e la propria vicenda geografica.
Il problema è notevole. Vorrei subito enunciarlo con chiarezza: turismo di massa e ambiente sono due cose antitetiche. Proprio perché di massa questo turismo è dannoso all’ambiente.
Credo sia sufficiente l’esempio della estenuante fila sotto i portici degli Uffizi allo scopo di consumare pochi secondi davanti a un Botticelli.
Un gesto insensato, improducente, che niente ha a che vedere con la cultura e con il sapere. Credo si possa sfidare chiunque a giurare se il Botticelli che hanno fugacemente guardato sia autentico o una buona copia simile a quella del catalogo.
Credo che tutti ricordino la ressa per i bronzi di Riace, quando vennero esposti a Firenze. Oggi si trovano a Reggio Calabria e nessuno si spinge a quella latitudine perché i tour operator non sono interessati a quella piazza.
E tuttavia il turismo di massa è ineludibile perché è un affare che gioca sulla bilancia dei pagamenti, che genera lavoro e commerci, produce pubblicità, trasporti e comunicazione. In tale comparto la merce è data dalla carovana o gruppo dei turisti compresi in un singolo pacchetto di agenzia. Le agenzie si scambiano i pacchetti, vale a dire i contratti, e i contratti principali sono quelli che fanno capo alle società conglomerate o associate che offrono la compagnia aerea, servizi a terra e la catena di alberghi o villaggi di soggiorno.
In pratica un ciclo di produzione e consumo che non può essere fermato, per decine di milioni di contratti all’anno che vengono chiusi stagione per stagione con un anno di anticipo.
In tal senso il turismo di massa è un’industria complessa dove il turista/cliente è la merce di base e materia prima, il prodotto è il tour itinerante, il capitale è ovviamente il patrimonio di ambiente e di beni culturali e l’investimento è dato dai servizi di agenzia.
Siamo, allora, di fronte a una forma d’impresa che utilizza un capitale che non gli appartiene, e che è quel patrimonio di risorse non riproducibili fatto di paesaggio e di opere d’arte.
Messa così, credo che gli operatori del turismo di massa abbiano almeno il dovere di contribuire alla difesa del patrimonio. Ma c’è da chiedersi anche se l’azione di difesa sia, poi, finalizzata alla inerte e insignificante cOnservazione o se debba spingersi alla ricostruzione del senso storico delle testimonianze del passato, se tanto passato non è.
Oggi siamo dentro uno scontro tra la pressione di un mercato che riduce tutto a merce e l’incomprimibile peso della storia, collettiva e soggettiva, che resiste a ogni volontà di rimozione e di dimenticanza.
Il patrimonio di storia, d’arte e di natura, il paesaggio monumentale, l’ambiente culturale, non sono che sostegni fisici di un mondo, tra passato e futuro, qui presente oggi in mezzo al disagio e alla sofferenza o all’insofferenza di chi, travolto dal mercato di consumo, non sa più perché né come sia ridotto all’insoddisfazione di essere sospinto in un movimento privo di scopo. Resta un desiderio insoddisfatto quanto più l’esperienza viene replicata, sommandosi vacanza a vacanza, se il viaggio è costretto nel tempo falsamente libero di una sottrazione alla produzione di senso, di una parentesi vuota, di un fuori scena o di avventura scritta nel copione dell’offerta turistica. C’è, del resto, una notevole letteratura sull’inferno a pagamento che sono le vacanze programmate, e a fronte del mercato, spesso nemmeno gli ambientalisti sanno bene perché alzano la mano a difesa del patrimonio, se il senso delle pietre si è perso nella comunicazione esuberante e nell’eccesso di idolatria e di eresia, come per i “bronzi’ o per la “copia’ del Botticelli.
In particolare nel Mediterraneo, non devo spiegarlo, per il persistere della civiltà e per il continuo superamento nella barbarie, o per il misto di entrambe.
Nasce un problema quando, semplicisticamente pensiamo di poter reprimere la derivata seconda di questo fenomeno. Impedire le case e il cemento, impedire le strade e le auto private, interdire la pressione ambientale ora sulla costa, ora sul monte e la collina. Il problema è dato dai costi di manutenzione che non possono essere sostenuti dalla spesa pubblica.
I costi sociali sono alti in entrambi i casi e abbiamo un nodo da risolvere con discernimento, imparando a distinguere i problemi.
Penso alle diverse tipologie d’uso del suolo e agli effetti d’impatto che interessano il consumo del suolo: impermeabilizzazione, erosione, incendi, alluvioni e frane.
Penso alle diverse attività e alle variazioni dei processi naturali che interessano la captazione delle acque, la produzi6ne dei rifiuti, l’estrazione di inerti, la sostituzione della vegetazione, l’abbandono della terra e il declino dell’agricoltura che difendeva il manto e il suolo. L’erosione della duna costiera, le patologie della pineta, l’inquinamento delle acque, sono fenomeni vasti e diffusi, come l’alterazione delle comunità biotiche dei sistemi insulari e tutti i fattori di instabilità indotti dall’uso di pesticidi, fertilizzanti e defolianti alla diossina.
Se si aggiunge l’effetto delle grandi opere pubbliche e dei grandi impianti di energia e dei trasporti, il bilancio della seconda metà del secolo è devastante come una guerra e vari attacchi di pestilenze e colera. E banale che sia la pressione ambientale complessiva la causa del logorio, vale a dire i grandi numeri. Se è vero che le sponde, ai tempi di Cesare, contavano 25 milioni di abitanti e oggi abbiamo oltre 300 milioni di cristiani sulla sponda nord e un pari numero di musulmani sulla sponda sud, con in mezzo il popolo d’Israele.
Vale a dire una popolazione enormemente cresciuta sulla stessa superficie, una biomassa, per dirla con gli ecologisti, tanto più squilibrata rispetto alla convenzionale origine della civiltà mediterranea, quanto più evidenti si mostrano i segni del degrado e della ingestibilità ambientale con mezzi normali.
Siamo consapevoli, lo eravamo trent’anni fa, di aver già superato il limite consentito nello sfruttamento delle risorse naturali, ma nessuno vuoi pagare il prezzo per convertire il generale processo di consumo senza sostituzione del capitale.
Siamo, da anni, al punto di doverci dedicare seriamente al restauro dell’ambiente e del paesaggio italiano, e, in Campania, abbiamo zone ad alto rischio dichiarate per decreto, che richiedono un profondo risanamento, e zone che richiedono la cessazione della produzione edilizia e della trasformazione a fini di sfruttamento, e, tuttavia, di fronte a danni evidenti fisici e culturali si rimpaflano le responsabilità e si litiga, senza andare oltre l’emergenza e le provvidenze contingenti dei commissariati.
invece è l’ordinario che occorre, è il quotidiano che serve. Vale dire la complessiva e continua azione di pubblico e privato orientata alla cultura della tutela e della compatibilità degli interventi. La conservazione delle aree naturali e del materiale biogenetico che contengono va applicata in misura differenziata alle diverse aree, diversamente degradate, a partire dalle zone critiche, ma poi continuando su tutto il territorio, Il concetto protezionistico tradizionale, che è selettivo e particolare, e ragiona per zone vincolate, trascurando l’organicità ecosistemica, va superato assumendo l’agricoltura come manutenzione del paesaggio anziché come attività produttiva.
Non sembri eresia o fuga in avanti, ma credo che siamo al punto di dover ricominciare con la scuola dell’obbligo. Allevare la nuova generazione ai valori dell’ ambiente, mostrargii la storia, arte e la civiltà mediterranea come realtà attuale, segnata dai conflitti e dagli errori del mercato, ma valida base di costruzione del futuro. Tirare su in vent’anni una generazione consapevole e responsabile, attenta e sensibile. E soprattutto attiva.
Come ci si può illudere di salvare l’immagine del paesaggio monumentale italiano se io stuolo di agricoltori e coltivatori che ne sosteneva la struttura non esiste più? Se le tecnologie, le macchine, la sindacalizzazione dei rimboschitori e le opere pubbliche producono lo scivolamento del paesaggio nel fango che rotola a valle a ogni pioggia?
La costa alta e le falesie crollano pezzo a pezzo nel mare, la duna superficiale degli arenili è frantumata dalle costruzioni e dalle linee ferrate, il bosco è incendiato, gli alvei idrici coperti da strade o ridotti a fogne, i terrazzamenti coltivati sono abbandonati. Ma la storia recente e la cronaca dell’economia ci dice che il paese è la quinta potenza industriale e che il degrado ambientale e culturale è stato il prezzo pagato dall’intero paese per ottenere questa classifica. Allora siamo di fronte a questa contraddizione. Si addita l’abuso edilizio mediterraneo, che è stato provocato da un mercato distorto dell’industria delle costruzioni. Lo Stato italiano lo sa bene e, mentre esercita repressioni esemplari, pubblica continue repliche dileggi a sanatoria. Si fa di tutto un po’ e il suo contrario. Questa politica è suicida.
Si è già detto e ripetuto, ma non si è incominciato a organizzare una seria politica della qualità, che vuoi dire una politica delle acque e dei fattori di trasformazione, ma c’è, anche, da ri-programmare i flussi turistici. Oggi il turismo di massa, vale dire gli agenti di viaggio, non segue interdizioni. Se, per circostanze casuali, confluissero migliaia di carovane o di charter, la stessa ora nello stesso luogo, nessuno li fermerebbe. L’incidente non avviene a causa della indisponibilità di posti letto, ma è anche successo che masse svincolate dalle prenotazioni delle agenzie e munite di sacchi a pelo, abbiano invaso Venezia creando il panico.
Non si può continuare a sottoporre a una pressione insostenibile luoghi delicati dal fragile equilibrio, i flussi non si controllano al recapito, ma all’origine.
Senza voler scandalizzare nessuno, mi sembra il caso di selezionare le qualità culturali dei turisti moderni, Intendo che non vada portato il medesimo turista indifferentemente a Disneyland e al Louvre. Il cliente abituale mangiatore di hamburger vada ai picnic nei parchi a tema, ma se vuole accedere alla Cappella Sistina sostenga un esame di ammissione. Si venderanno meno biglietti al Vaticano, ma saranno ben compensati dai cinque milioni di visitatori di San Giovanni Rotondo, che ormai è un parco a tema coronato dal mostruoso parcheggio di pellegrini progettato da Renzo Piano. L’ambiente locale, già privo di qualità, non può che giovarsene e, in tal modo si tengono le masse lontane da luoghi più vulnerabili.
Sarà una soluzione brutale, forse aristocratica, certamente dirigistica, ma c’è un solo modo per governare fenomeni di massa: creare i corridoi per indirizzarli verso luoghi privi di qualità che possano devastare senza far seri danni. Questo fino a quando il mercato muterà in virtù delle tecnologie telematiche, o perché le masse non potranno permetterci inferni troppo costosi. Non credo che i costi e lo sforzo per la tutela saranno mai sufficienti a contrastare la pressione del turismo di massa e a evitare i danni continui all’ambiente. Va fatta la mappa della tollerabilità o sostenibilità, come per l’inquinamento acustico o atmosferico. Quando si accosta il limite deve scattare l’interdizione. Inutile girare intorno al problema. La questione, tuttavia, non è solo computazionale. Non si può contrapporre il bilancio quantitativo fatto di costi e ricavi, dove si mettono a confronto gli investimenti e i posti di lavoro creati nel settore, da un lato, e dall’altro la spesa della manutenzione, tirando le somme e pubblicando i dati dell’incremento di entrate di valuta pregiata.
Esiste, ed è importante, una questione di valori immateriali. Dobbiamo cominciare o ricominciare a decifrare il senso del fatto culturale, il valore morale del patrimonio e il suo uso pedagogico e formativo. Trasportare masse impreparate e sbatterle davanti all’opera d’arte sarà un affare per l’agenzia, ma la funzione culturale del patrimonio è ben altro. Esaspero apposta il fenomeno allo scopo di cogliere un punto. L’utilità o l’inutilità sociale della produzione turistica così come è fatta oggi. Non appaia banale affermare che c’è una crisi di significato, e una crisi di servizio reso, infine una crisi di indirizzo e di guida morale e culturale. Il patrimonio non può essere una questione di venditori e compratori d’immagini.